L’orchessa di Reading, l’assassina travestita da benefattrice ce ne parla Fabiana Manna.
Ciascuno di noi, inevitabilmente e non di rado, si è imbattuto in tragiche notizie, relative a barbari omicidi. La storia è piena di assassini privi di scrupoli, che spesso hanno massacrato vittime indifese e inermi per il solo motivo di procurarsi piacere. Vedere la sofferenza negli occhi delle proprie prede, ascoltare le urla strazianti, capire che la fiamma vitale si spegne un po’ alla volta in seguito agli atti di violenza inflitti, per molti assetati di sangue e di morte rappresenta un momento di esaltazione, di soddisfazione, di rivalsa, di libidine. A volte possono avere un ruolo determinante anche l’avidità, la rabbia repressa, le frustrazioni, l’invidia. Succede anche che ci si possa imbattere in assassini seriali, quelli cioè che uccidono persone che hanno un denominatore comune, come l’età o il sesso, con una ciclicità temporale. La criminologia moderna ha iniziato ad occuparsene in modo sistematico a partire dagli anni settanta, ma questo triste fenomeno ha origini lontane nel tempo.
Inghilterra, epoca Vittoriana. Periodo profondamente eclettico, durante il quale il progresso industriale, l’espansione coloniale e l’affermazione della classe borghese crescono in maniera esponenziale. La tecnologia e la scienza fanno il primo vero balzo in avanti, la letteratura e l’arte partorisce molti autori. Ma è un periodo anche molto contraddittorio: a causa dell’urbanizzazione lievita in maniera tremenda il degrado sociale. I quartieri poveri pullulano di case fatiscenti, di fame, malattie, violenza. E c’è chi di questa situazione ha approfittato, incarnando l’orrore, ammazzando bambini in fasce: stiamo parlando di Amelia Dyer, nota anche come “Jill the Ripper”, perché le vicende che l’hanno vista protagonista erano cronologicamente vicine a quelle di Jack lo squartatore.
Ma andiamo per gradi.
Amelia nacque in una famiglia agiata di Bristol nel 1838. Rimasta orfana di entrambi i genitori, nel 1861 si trasferì a Trinity Street, a Bristol, dove sposò George Thomas. Successivamente iniziò a fare pratica medica e, rimasta vedova a soli 32 anni e con una figlia da mantenere, si offrì di tenere nascoste le nascite di figli illegittimi in cambio di denaro. Nel periodo vittoriano,infatti, i figli indesiderati rappresentavano un problema enorme non solo per le prostitute, ma anche per qualsiasi donna nubile. Era quasi impensabile per la maggior parte delle ragazze credere di poter provvedere a se stesse e anche alle piccole creature. Tra l’altro una legge dell’epoca, concepita per scoraggiare il concepimento al di fuori del matrimonio, consentiva ai padri illegittimi di non doversi occupare finanziariamente del piccolo, lasciando alla sola madre l’onere del mantenimento. Queste donne non avevano molta scelta: il più delle volte erano costrette ad abbandonare i bambini. Ma persone come Amelia Dyer si offrivano, dietro il corrispettivo di un compenso modesto, di tenere con se questi piccoli, promettendo di prodigarsi affinché fossero adottati da famiglie facoltose. Ma la realtà era un’altra: dopo aver ottenuto quello che voleva dalle madri, lasciava che i bambini morissero di fame e di stenti, abbandonati a loro stessi, o anche intossicandoli con forti dosi di alcool e oppio. Del resto, in quel periodo le morti in culla erano frequenti, e i medici, di fronte a questi casi, non potevano fare altro se non constatarne il decesso come morte naturale. Ma quelle morti insospettirono un medico che certificava il suo operato, e nel 1879 fu arrestata, non per omicidio ma per “negligenza”, cioè poca attenzione verso i bambini. Fu pertanto condannata ai lavori forzati, che la provarono psicologicamente, e che contribuirono a renderla dipendente da alcool e sostanze oppiacee. Dopo il rilascio riprese la sua macabra carriera, riuscendo a trovare anche un modo per eludere i sospetti: cominciò ad uccidere direttamente i piccoli, firmò da sola le dichiarazioni di morte e si liberò di quei piccoli corpi lasciandoli alle acque del Tamigi. Non solo: per aggirare ulteriormente le ricerche, spesso cambiava città e utilizzava vari pseudonimi, tra cui “Signora Thomas”. Nel 1896 uccise le tre vittime accertate, Doris Marmon, Harry Simmons e Helena Fry. Li aveva adottati, strangolati con un nastro bianco, rinvenuto successivamente nella sua casa, e poi gettati nel Tamigi in sacchi pieni di mattoni. Ma il delitto perfetto non esiste e, poco tempo dopo, il fiume restituì i primi piccoli corpi riconducibili al mostro travestito da benefattrice. La Dyer fu messa sotto sorveglianza e pedinata. Elemento decisivo fu l’intervento di una complice che, fingendo, le chiese di adottare un presunto bambino. La polizia fece irruzione nella sua casa, e trovò telegrammi dai quali emergevano accordi sulle adozioni, lettere di alcune madri che erano interessate a conoscere lo stato di salute dei loro figli, annunci pubblicitari e il nastro utilizzato per soffocare le povere creature indifese. A quel punto si decise di dragare il fiume Tamigi, che restituì altri sei cadaveri strangolati con lo stesso nastro trovato a casa della Dyer. Infine fecero una stima dei possibili omicidi che quel mostro avesse potuto compiere in quell’ultimo ventennio: il numero oscillava da duecento a quattrocento morti! Una vera carneficina.
Il 22 maggio 1896 fu processata ma riconosciuta colpevole di un solo omicidio, nonostante i collegamenti a moltissime altre vittime. Nonostante l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti e nonostante i suoi acclarati disturbi mentali, non fu dichiarata incapace di intendere e di volere. La sentenza fu emessa in circa quattro minuti e Amelia Dyler fu condannata a morte per impiccagione. Il 10 giugno di quello stesso anno, nella Newgate Prison di Londra, la mano di quello spietato demonio fu fermata per sempre.
CURIOSITÀ
Pare che le sue ultime parole, poco prima che la botola venisse aperta, furono “Non ho nulla da dire”.
Dopo la sua morte la Dyler divenne famosa come “L’orchessa di Reading”.
Fabiana Manna