
Cantami o diva degli eroi le ombre, Isabella Bignozzi. La Lepre edizioni
La peste è la metafora del male. Del male che viene da fuori, o dall’altro, come le frecce scagliate da Apollo sui Greci in partenza per Troia. Ma anche, e soprattutto, del male che nasce, e cresce, dentro di noi. All’interno del mondo e dal mondo. Radicato in quella natura che insieme ci avvolge e ci costituisce come esseri finiti, fragili, esposti al vento gelido della morte.”
Roberto Esposito, filosofo italiano
In terre lontane, bagnate dalla dolcezza del mare che bacia il sole al tramonto, tutto pare in perfetto e pacifico equilibrio. Nessuno ancora, può immaginare le trame di gloria e di morte che il fato, silenziosamente, tesse da tempo…
Elena e Clitennestra sono due sorelle che vivono a Sparta. Si somigliano molto. Figlie del re Tindaro, hanno due fratelli gemelli: Castore e Polideuce. Clitennestra, però, nutre una forma di incontenibile gelosia nei confronti di sua sorella.
“Ama sua sorella, come si ama la luce del giorno o l’effluvio dei fiori. Ma a volte vorrebbe che morisse. Soffre di non essere come lei. Non è solo una questione di bellezza, è qualcosa che viene da dentro: che dà alla sua pelle quel nitore, ai suoi occhi quel celeste, al suo modo di muoversi quell’ingenuità tenera, nuove come l’alba, di fronte a ogni cosa. A volte al mattino Clitennestra rimane con gli occhi chiusi, tra le lenzuola. Conta i numeri sulle dita, chiama un sortilegio. Poi immagina di alzarsi, di vedere che Elena non c’è più, non c’è mai stata. Di trovare i suoi genitori che l’aspettano, che guardano solo lei. Forse c’è bellezza nel castano dei suoi occhi, dei suoi capelli. Forse c’è eleganza nel suo viso. Ma accanto a Elena, essere notata è impossibile. Lo sguardo scivola distratto su di lei, piccola goccia d’acqua, e va a posarsi accanto, nell’indaco del mare. Sua sorella: è lei l’immenso blu che tutto inghiotte.”
A Micene, il re Atreo ha due figli: Agamennone e Menelao.
“Loro non hanno mai conosciuto l’affetto della madre, assente e spergiura, né quello del padre, irascibile e rabbioso. Vivono soli in quella reggia immensa, dandosi cruccio e assillo l’uno con l’altro. Agamennone si fa scudo della sua crudeltà, imponendola al fratello come un insegnamento, una necessità. Menelao cresce dolce e succube, sente sulle spalle strette tutto il peso della colpa.”
Peleo è il re di un piccolo regno, Ftia. Sposa una dea del mare, Teti, che di fatto non lo vuole. Da questa unione nasce un figlio, Achille, che Peleo affida a Fenice, un uomo paziente, bravo alle armi.
“Achille cresce, diventa un ragazzo forte, altissimo. Respira tranquillo e rimane immobile di fronte a qualsiasi pericolo, pronto a reagire fulmineo e micidiale, con un atteggiamento simile all’indifferenza. Non chiede mai consiglio, sembra sapere sempre l’agire e il quando. Ha negli occhi qualcosa di gelido e triste. Una grazia spietata, un’incurante risolutezza. Come se avesse già visto il suo futuro accadere. E ne conoscesse tutto (…). È ancora un ragazzo, ma c’è qualcosa di sinistro in lui. Nella prontezza con cui tira di spada, nella forza con cui scaglia il giavellotto, nella precisione con cui centra sempre il bersaglio. Fulmineo è la parola che viene alla mente ogni volta che lo si vede agire. Rapido e violento, è il fragore nero del tuono, la glaciale linea d’oro che taglia le nubi. La folgore di Zeus.”
Una mattina Peleo informa Achille che a palazzo arriverà un ragazzo, Patroclo, figlio di re Menenzio, signore di Opunte.
E poi c’è Itaca…
“Ad alcuni marinai appare un’isola, navigando verso il tramonto. Altri l’hanno cercata a lungo, seguendo le stesse rotte, guardando le costellazioni di notte e orientandosi con i racconti di chi vi era approdato, ma non l’hanno trovata. Eppure non è lontana dalla terraferma (…). Non è un’isola importante, ricca di oro o mercanzie. Non è uno scalo necessario. Non vi sono grandi porti in cui comprare ceramiche tinte o gioielli luminosi né stoffe screziate o tappeti d’oriente. Non vi sono potenti monarchi, né strategiche alleanze, o ricchi fidanzamenti. L’approdo è difficile, ventoso, frastagliato. Non vi sono templi millenari, oscure profezie e grandi altari, né processioni che portino statue o pepli ricamati d’oro. Non ci sono larghe strade o portali di bronzo, né architravi di pietra con leoni o sfingi alate (…). In quei luoghi ci si ammala di arcana nostalgia, del ricordo di qualcosa di mai vissuto, dell’idea di non poter avere vita e cuore altrove. Conviene a Itaca che la si dica isola di pietra. Che i viandanti non si fermino (…). Le acque fresche e chiare con il loro gorgoglio sussurrano ai viandanti che il tempo non passa a Itaca. Che si approda perché si è persa la via. Che poi non si vuole più ripartire.”
Laerte è sposato con Anticlea ed è il re di Itaca. Il figlio, Odisseo, è molto scaltro; una furbizia ereditata dal nonno Autolico e, di fatto, non è il vero figlio del regnante dell’isola.
Intanto, Sparta pullula di pretendenti disposti a tutto pur di prendere in sposa la bellissima Elena. Odisseo partecipa, ma sceglierà Penelope, cugina di Elena.
“Forse più di cento principi si sono radunati con il passare delle ore (…). Quanti occhi, quanti visi, quanti toni e umori l’hanno guardata. Con meraviglia, con venerazione. Con avidità. Con ferocia. È questa dunque, la bellezza con cui gli dèi l’hanno marchiata. Un’avvenenza amara, radicata in lei. Come una malattia rovesciata. Un frutto acerbo, pieno di spavento.”
Elena sceglie. Vuole Menelao, il rosso. Ma la fanciulla viene a sapere che qualcuno, in gran segreto, ha sacrificato un cavallo e fatto un giuramento agli dèi dell’Ade…
Ma Elena è stata realmente rapita da Paride, o si tratta della mera follia di questo principe, trovato nel bosco, per il quale gli oracoli avevano previsto la rovina? Agamennone vuole trovare il bandolo della matassa e, con un imbroglio, riesce a radunare tutti i migliori di Achaja.
“E poi c’è Menelao. Tutto questo spiegamento di forze, questo brulicare di soldati, è per lui, per fargli riavere sua moglie (…). Agamennone pregusta la vittoria. Sa di avere molti punti a suo favore. I suoi comandanti hanno cavalli altissimi, carri veloci; abili aurighi, arcieri micidiali. Lanciati in corsa sul campo di battaglia, falceranno i corpi dei nemici come spighe alla mietitura. Già vede il sangue scuro dei troiani bagnare la polvere, dissetare la terra. Ripagarli goccia dopo goccia dell’oro estorto negli anni ai loro forzieri (…). Agamennone non vede l’ora di iniziare il gioco. Ma perché tutto questo possa accadere, manca qualcosa. Qualcuno. Un oracolo ha predetto che solo con Achille, il re dei Mirmidoni, Troia cadrà. “Il migliore dei greci”. Così è stato detto. Agamennone stringe le labbra per il fastidio. Il principe di Ftia in patria non c’è, e Peleo, suo padre, non parla.”
Sarà Odisseo a stanare Achille, che finalmente può andare incontro al suo destino…
“Ci sono voluti mesi per radunare le flotte, contare gli uomini, armare i battaglioni. Ormai sono arrivati tutti. Anche Achille, con i suoi guerrieri neri, i mirmidoni (…). I preparativi sono stati lunghissimi, ma ora gli achei sono pronti a partire. Iniziano a smontare il campo, a ricaricare le casse e i bauli nelle stive.”
Agamennone sarà costretto a superare un altro scoglio, doloroso e crudele: Calcante, l’indovino, gli dice che gli dèi saranno indubbiamente a suo favore, a patto però, che venga loro sacrificata sua figlia Ifigenia…
“Ifigenia si sente afferrare le spalle in una morsa. Braccia come pietra: conosce quelle braccia. Non fa in tempo a pensare altro, sente solo qualcosa di gelido, rapido, sulla gola. Poi un liquido bollente le affoga la voce, il respiro. Agamennone, le braccia come pietra, il sangue appiccicoso e tiepido di sua figlia sulle mani, fa di nuovo l’errore di guardare. Capisce allora che la bellezza è dolore, ma non quanto la morte. Gli occhi sgranati, due grotte nere. La sua bambina-è solo una bambina-che si piega. Di nuovo Ifigenia, di nuovo quegli occhi, dilatati sulle tenebre: lo stupore del tradimento, fermato in eterno dalla morte. L’espressione ultima di quegli occhi. L’orrore del tradimento eterno, senza rimedio.”
Finalmente, arriva l’agognato giorno della partenza, e Achille si ripete di continuo: GLORIA VUOLE MORTE…
“La prima nave approda. Si sente il tonfo del legno sulla sabbia (…). Protesilao di Filace è il primo greco a toccare il suolo di Troia, il primo greco che muore. Fa appena in tempo a sentire l’acqua gelida, le gocce taglienti sui polpacci come schegge di cristallo. Poi corre, ha le gambe di vento, ma la lancia del figlio di Priamo gli trova la gola. Il suo corpo incespica, cade, si apre come un fiore reciso nell’acqua, la tinge del colore del vino rosso (…). Le frecce da entrambi gli schieramenti partono come stormi di uccelli, disegnano le loro parabole nell’aria, poi vanno a conficcarsi nelle gambe nude, nei petti. Alcune vibrano all’impatto con gli scudi o con il legno degli scafi, molte si tuffano nell’acqua del mare, tra le lance abbandonate (…). I troiani cadono in molti. Gli avamposti iniziano ad arretrare, i comandanti gridano ai soldati di ritirarsi. Corrono via senza voltarsi-non s’aspettavano una furia del genere-molti vengono colpiti alle spalle dalle frecce, dalle lance. Scappano come ladri, abbandonano sul campo gli archi, le faretre. Lasciano i compagni caduti, le armi; i bagagli del bivacco, gli otri d’acqua della notte. I greci arrivano come falchi, rubano le armature, gli elmi, le spade. I troiani corrono a rifugiarsi dentro le mura (…). I greci raccolgono i loro morti, pregano gli dèi.”
Troia, però, sembra impenetrabile, e gli anni passano…
“Dopo anni di scorribande, centinaia di villaggi abbattuti e dati alle fiamme, di contadini e pastori venduti come schiavi, non è cambiato nulla. Troia rimane una regina trasparente, un miraggio intoccabile, poggiato sull’orizzonte. Le sue porte di ferro rimangono chiuse (…). C’è stato un momento in cui i greci hanno tentato con ogni mezzo di sfondare frontalmente, e tanti soldati sono morti nella piana davanti le mura. Quando pareva ancora possibile aprire un varco nelle fortificazioni e prendere in qualche modo la città (…). Troia continua a poggiare sull’orizzonte, sempre identica a sé stessa. La sua forza è esistere, immobile, e costringerli ad aspettare.”
Il tempo è scandito dalle battaglie, crude ed estenuanti, da una pestilenza sopraggiunta inaspettatamente, che miete ulteriori vittime, dalla paura e dalla speranza e dal desiderio di tornare a casa, dai propri cari. Anche perché, da quando Achille ha smesso di combattere, umiliato da Agamennone, gli achei stanno trovando grosse difficoltà. Sarà Patroclo a indurlo al ragionamento, proponendogli una mossa strategica: vestirà i suoi panni e prenderà le sue armi, facendo credere ai troiani che Achille è tornato in battaglia. Achille accetta. Osserva da lontano, pare che il piano stia funzionando: i nemici stanno scappando, ma il carro di Patroclo si sta avvicinando troppo alle porte Scee. Qualcosa è andato storto. Achille lo sa…
“Vede gli uomini tornare (…). Si avvicinano. No, nessun ferito, è un compagno morto. Spogliato delle armi, veste solo la tunica, lo portano avvolto in un mantello. Un principe caduto. Un braccio penzola, come un ramo spezzato, sporco di sangue. Il viso rimane ancora nascosto. Si vede solo una ciocca di capelli scuri. Si avvicinano ancora. Menelao piange. Il soldato morto. No, forse è solo svenuto. Dorme. Sembra ancora un ragazzo. Ha i calzari di Patroclo. Patroclo. Il grido di Achille fa tremare tutta la terra (…). All’alba, Achille piange ancora. Prima grida il suo dolore, barbaro e pieno di febbre. Rimane abbracciato al cadavere, ostinato come un corpo che non vuole nascere. Poi singhiozza più piano, sta fermo per ore (…). Achille indossa le armi. Si asciuga le lacrime col dorso del braccio, inizia a correre, lungo la riva del mare, grida (…). Poi lo vede, Ettore (…). I due eroi si issano sulla riva, iniziano a inseguirsi per la pianura (…). Vede un angolo di pelle nuda, la base del collo dove passano le vene, la parte molle vicino alla spalla. In quel punto preciso conficca la sua lancia, gli attraversa il collo da parte a parte. Ettore emette un suono strozzato, cade sulle ginocchia, e muore (…). Ettore, spogliato delle armi, la gola aperta e svuotata, la sabbia rossa del suo sangue. Ha i piedi trafitti, i tendini forati tra tallone e caviglia, vi passano delle stringhe lunghe di cuoio. Achille è fradicio e sporco, ha i capelli arruffati come stoppie nel vento. Parla da solo, grida come un demonio. Sta legando Ettore al carro, lo attacca per i piedi martoriati dai lacci. Sale, sprona i cavalli. Lo trascina così, verso le navi degli achei, come un rottame, una carcassa. Lo fa strisciare nella polvere, i capelli neri sparpagliati, la testa insanguinata che sobbalza sui sassi. Andromaca sente le ginocchia piegarsi, gli occhi che diventano molli. Un istante prima del buio che l’avvolge, la raggiunge il ghigno impazzito di Achille. Sembra che rida, e invece piange.”
Sarà Paride che, scoccando una freccia, colpirà a morte l’eroe, il semidio, l’impavido Achille.
Troia è in festa: la guerra è finita, e gli achei sono andati via. Solo che, all’improvviso, qualcuno nota una scultura enorme, un cavallo di legno gigantesco. Un greco, lacero e quasi in fin di vita, sostiene che si tratta di un dono per la dea. Gli achei, con questo gesto, desiderano essere perdonati…
“Perché perdoni gli achei d’aver profanato i vostri templi, d’aver trafugato il Palladio. È così grande perché non possa entrare tra le mura. Altrimenti finirebbe per diventare un amuleto per voi, una protezione per Troia. La città diverrebbe per sempre inespugnabile (…). Molti dicono convinti “Consacriamo il simulacro alla dea, allarghiamo le porte Scee” (…). Il cavallo è dentro le mura (…). Le porte Scee sono spalancate, i battenti smontati, buttati nello spiazzo davanti le mura. I montanti e gli architravi sembrano rosicchiati dai topi, sono stati slargati a colpi d’ascia per far entrare il cavallo. L’entrata di Troia è aperta, guarda nel buio, come un occhio senza palpebre.”
Ho ritenuto necessario riportare molti stralci di questo appassionante romanzo, perché rappresentano non solo un filo conduttore che va dall’inizio alla fine, ma anche quasi un atto dovuto per una storia che rappresenta un pezzo notevole di Storia.
Con un linguaggio forbito, e allo stesso tempo fruibile a tutti, l’autrice consente ai lettori di immergersi completamente, con ogni senso, nello straordinario percorso dei mitici personaggi: si ode lo sciabordio dell’acqua, a volte calmo, altre furioso, impetuoso come gli animi di quegli uomini che lottano impavidi; si vedono gli schieramenti, perfettamente fusi, strategicamente in sintonia; si respira l’aria pregna di sangue, di sudore, di paura; si percepisce l’amaro della polvere, che si alza paurosamente soprattutto durante i combattimenti e che ormai sa di fiele; si toccano le armi, gli scudi, gli elmi e i corpi dei compagni morti, straziati, insanguinati, a volte resi irriconoscibili. Tutto appare tangibile: i castelli, sfarzosi, maestosi, retti da pietre indistruttibili e da intrighi inenarrabili; le navi, potenti, immense, che solcano i mari, cariche di beni di ogni tipo, e di insaziabile fame di gloria; i paesaggi, perfetti, straordinari, ammirevoli anche agli occhi degli dèi, oltraggiati, però, dalla mano dell’uomo, sempre avida, bramosa, ingorda; le donne, punto di riferimento, belle, operose, guerriere, delicate, ma poste alla mercé degli uomini, siano essi padri, fratelli, mariti o vincitori di guerra che le rapiscono, le violano, le schiavizzano, le strappano dalle loro terre come bottini meritati. A nulla servono le grida, i pianti, le implorazioni: il male travolge tutto e spesso, ahimè, vince.
Una lettura straordinaria, pregna di enormi emozioni, che consiglio vivamente a tutti.
Elena bambina, ingenua e limpida, che gioca sulle rive dell’Eurota; Achille e Patroclo che duellano per gioco con spade di legno, a piedi nudi nell’erba. La petrosa Itaca, un Odisseo rinnegato dal padre; un nonno arroccato su una montagna nera, ispido e accigliato come un lupo. Le gelosie di Clitennestra, gli intrighi dei principi; un giuramento notturno, macabro, alla luce delle torce. Una bambina che cresce guerriera tra nebbie malsane, orizzonti nordici, feroci centauri. La spedizione immensa, basata su un inganno. La guerra infinita, incantesimo che mangia il tempo. Questo romanzo è una rapsodia moderna, che fa rivivere alcuni personaggi omerici e del mito troiano con narrazione obliqua; nel libro respirano miti e leggende eterni, e gli archetipi della vittima e dell’eroe, secondo una prospettiva vicina al Poema della forza di Simone Weil.
Autore: Isabella Bignozzi
Editore: La Lepre Edizioni
Collana: Visioni
Anno edizione: 2023
In commercio dal: 5 giugno 2023
Pagine: 390 p., Brossura
EAN: 9791280961112
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