Brianzola d’origine, torinese d’approdo, dopo aver vissuto in vari paesi del mondo, Paola Cereda, laureata in psicologia, si divide tra la scrittura, il teatro, i progetti sociali. Ha scritto numerosi romanzi per i quali ha ricevuto menzioni e riconoscimenti. Con il suo ultimo romanzo ” Quella metà di noi” edito da Giulio Perrone, è finalista al Premio Strega 2019.
Buongiorno, Paola, e benvenuta nel blog Il mondo incantato dei libri.
Innanzitutto ti faccio i complimenti per lo straordinario successo del tuo ultimo libro, “Quella metà di noi”, edito da Giulio Perrone e incluso tra i finalisti dello Strega.
-Allora è proprio vero che i sogni possono realizzarsi? Anche tu, che sei pubblicata da una casa editrice indipendente, sei nella prestigiosa dozzina. Che ci dici in proposito?
E’ una bella soddisfazione per me e per tutta la squadra di Giulio Perrone Editore che ha lavorato tanto e bene, credendo nel romanzo. Per un libro che mette al centro le storie di cura, la cura di chi ci ha lavorato – dall’editor all’ufficio stampa, passando per il commerciale e per la mia agente Silvia Meucci – si è rivelata la strada vincente.
Io ho letteralmente divorato il tuo libro, dopo aver assistito a una presentazione.
L’ho comprato, pur essendomi ripromessa di non farlo, perché troppi ne ho che giacciono impilati sopra e intorno alla scrivania, sul comodino, sulla mensola alle spalle del mio letto e a terra, sparpagliati un po’ dovunque. Ma, al di là della trama, mi ha colpito di quell’incontro il tuo sguardo sul mondo.
Pur parlando di realtà e personaggi complessi, di vissuti non lineari, di rapporti difficili, di stratificazioni esistenziali, c’era quella sera un singolare nitore nella tua espressione, una chiarezza nel linguaggio, che colpivano. Come di chi parli dopo essersi posto seriamente di fronte a cose e persone, le abbia osservate in profondità, le abbia studiate con attenzione e si sia proposto di capire.
Leggendoti poi, si percepisce che tu a quei personaggi di cui scrivi hai prestato ascolto e te ne sei presa cura. E di questo mi è parso di avere conferma quando ho letto che sei psicologa e che ti occupi di teatro, per cui i personaggi che racconti li ho immaginati, per quanto di fantasia, tratti a piene mani dai tuoi incontri, dai volti che hai incrociato, dalle persone nelle quali ti sei imbattuta e con le quali il tuo cammino si è incrociato.
E’ così? Sei una persona che sa ascoltare, che prova empatia nei confronti del prossimo?
Quando ero all’università (ho studiato psicologia), i miei professori mi rimproveravano la passione per il teatro che, secondo loro, mi portava in una direzione diversa da quella “tradizionale”. In realtà io avevo ben chiaro che la mia strada era una soltanto e che era fatta di storie. Le basi della scrittura, per me, sono due: leggere buoni libri e restare in ascolto costante delle storie che incontriamo nel nostro quotidiano. Storie all’apparenza minime ma che portano con sé bagagli di non detti e di mondi vissuti o immaginati. Credo nelle relazioni e, in particolare, nel fatto che ogni relazione trasformi ciascuna delle parti coinvolte. Sempre.
A un certo punto del libro tu scrivi che regalare a qualcuno uno sguardo attento significa autorizzarlo all’esistenza. Io condivido appieno il tuo pensiero, solo lo sguardo dell’altro ci fa sentire vivi, ci conferisce il diritto di cittadinanza, attribuisce legittimazione al nostro stare al mondo, equivale al sentirci amati. Diversamente, se non avvertiamo sguardo su di noi, finiamo col sentirci trasparenti, inutili, privi di senso. Tutti abbiamo bisogno di essere guardati, riconosciuti, apprezzati.
In fondo in questo tuo libro, tra i tanti temi toccati, mi sembra che centrale sia il tema dell’amore, declinato in tutte le relazioni possibili, tra genitori e figli, tra uomo e donna, tra vicini di casa, tra accudente e accudito, tra serva e padrona. E mai come in questo tempo veloce e distratto sembra esserci più che mai bisogno d’amore e di sguardo reciproco. Sei d’accordo?
A Torino collaboro con un’associazione che si occupa di intercultura in zone periferiche della città. Uno sguardo, un nome, una stretta di mano, un tempo – anche minimo – dedicato all’incontro sono tutti ingredienti fondamentali per andare oltre le etichette generiche di straniero, vicino, diverso e via dicendo. Prima della diffusione dei social, ci si conosceva per poi raccontarsi le storie. Oggi si parla (a volte ci si insulta) sulla rete senza arrivare mai a conoscersi. Per quanto riguarda l’amore, è importante in tutte le sue sfumature: dall’affetto alla passione, dalla rabbia all’incomprensione. Riconoscendo all’amore la sua complessità, possiamo accettare il fallimento e la riuscita delle relazioni che sono e restano il motore della nostra umanità.
Tu scrivi che abbiamo tante vite quante sono le persone che incrociamo e alle quali concediamo la possibilità di determinare un cambio di direzione o una svolta e che con costoro attraversiamo più di un’esistenza.
Avere aperti occhi e cuore, essere sempre pronti all’incontro con l’altro, allo scambio, è fondamentale. La reciprocità arricchisce l’esistenza, moltiplica le nostre possibilità di stare al mondo, riempie la vita.
E’ così? Te lo chiedo perché penso che la questione vada posta esattamente in questi termini. E’solo quando si alzano barriere intorno a noi, quando si erigono muri, che la vita ci chiude le porte in faccia.
In sostanza è quello che accade a molti dei personaggi del libro, alcuni dei quali potrei definirli aperti, altri chiusi. I primi si danno una possibilità, i secondi, per non soffrire, se la negano. Ma tu scrivi che si vive per essere felici almeno un po’ e si muore per non essere infelici per sempre.
Che mi dici a riguardo?
Ci sono barriere che difendono e altre che separano: servono entrambe, ma quando e come usarle dipende dalla situazione e dal contesto. Quando mi sono laureata (con una tesi sull’umorismo ebraico), ho avuto la fortuna di collaborare per qualche anno con il mio correlatore della tesi, Moni Ovadia. Mi sono ritrovata in una compagnia multietnica dove si parlavano lingue diverse e dove convivevano persone che arrivavano da tante parti del mondo. Quell’esperienza mi ha cambiato la vita, sotto molti aspetti. Le differenze non mi hanno più spaventata, anzi, sono diventate uno stimolo per conoscere ciò che l’altro mi può raccontare e che può arricchire il mio sguardo sul mondo. Da allora ho ricercato la diversità (di provenienza, di lingua, di abitudini, di pensiero). Ho viaggiato e viaggio almeno due volte all’anno, perché i viaggi, per me, sono una specie di “università della strada”, un vero e proprio nutrimento. La felicità ha a che fare con il “tendere verso”: verso un’evoluzione costante, verso la bellezza, verso le possibilità ancora da cogliere.
E’ impressionante la molteplicità dei piani toccati dal romanzo, anche se poi tutto mi sembra torni all’amore. Ho trovato bellissimi i pensieri al riguardo che tu attribuisci ai diversi personaggi. Ciò che ci appassiona di più dell’altro, scrivi, per esempio, è la qualità del tempo che ci si dedica a vicenda; sono le parole usate per noi, quelle che ci vengono rivolte, perché, se qualcuno ci dice che siamo belle, noi lo diventiamo per davvero, se ci dice che siamo capaci, in noi si fa strada la voglia di osare e così via. E ancora l’amore lo vedi in quell’usare le parole giuste, i plurali, o in quel contatto da tenere vivo, anche solo attraverso un ginocchio, a letto, come un modo di dire: io ci sono e tu? Ma poi dici anche che non si deve rimanere ai margini di chi si ama, perché di tutti gli errori, quello irreversibile sono le parole che non si sono pronunciate.
Sembri pensare, insomma, che bisogna sempre provarci, anche se si cade, anche se si sbaglia, anche se l’amore dato non torna indietro come lo si sarebbe voluto. Perché non si ama mai invano, anche se non sempre le situazioni che determinano le esistenze coincidono con il sentimento che le attraversa.
Tu questo lo credi davvero? Credi, come fai dire a un certo punto a un tuo personaggio, che i desideri sono intenzioni da prendere di petto, nonostante i no e i forse dell’esistenza?
Di tutte le cose per le quali provo dispiacere, metto al primo posto le vite che ogni tanto incontro e che hanno rinunciato a crescere, a imparare, a investire sulle proprie scelte per darsi la possibilità di reinventarsi. Siamo fallibili e siamo imperfetti: e allora? Per fortuna siamo fallibili e siamo imperfetti, abbiamo corpi che invecchiano, errori nei quali inciampiamo e persone che deludiamo e che ci deludono. Siamo bianchi, grigi e neri, contemporaneamente, e in quanto esseri complessi dovremmo concederci la possibilità di amarci, nonostante tutto, per amare meglio gli altri.
In fondo tutta la vita ruota intorno al desiderio, alla pulsione, qualunque essa sia, che ci tiene in vita. E tu in proposito fai dire a un personaggio, l’ingegnere, che sarebbe bello tornare a desiderare come fanno i bambini, con gusto, pienamente, disperarsi per ottenere e poi bearsi della conquista e ricominciare a volere.
La pensi anche tu come lui? Sono tue quelle parole che gli metti in bocca?
Mi stupisce sempre la disperazione assoluta dei bambini davanti a un no o dopo una caduta, così come la loro capacità di recuperare il sorriso nel giro di pochi secondi. Il desiderio dei bambini è un desiderio potente e pieno, legato all’immediato, privo di qualsiasi macchinazione sul passato o sul futuro: è centrato sul presente, ecco perché è così straordinario. Si, la penso come l’ingegnere quando dice che lo rivorrebbe indietro.
Altro tema centrale del tuo libro è il segreto, il lato oscuro, quella parte di noi che teniamo celata, che non raccontiamo, il volto intimo che non esponiamo.
I segreti li definisci spazi di intimità da preservare, nascondigli per azioni incoerenti, fughe, regali senza mittente.
E proprio ai segreti si riferisce il titolo del romanzo, perché quella metà di noi che sono appunto i non detti, il taciuto, il non raccontato, corrisponde però alla parte più vera, è un’istantanea che ci ritrae con precisione in un determinato tempo della nostra vita.
Ci sono segreti che non si raccontano per proteggerli, altri, invece, che si tengono celati per vergogna, ma sicuramente tutti ne hanno.
Tu dici in proposito che chi non ha qualcosa da nascondere ha almeno una verità da raccontare.
E’ bene, dunque, secondo te, preservare sempre e comunque spazi di intimità, non affannarsi a dire tutto, a trovare le parole per ciò che si ritiene impronunciabile? Perché, forse, mettendo l’altro al corrente di un nostro segreto, mostrandogli la verità non sempre dicibile, gli si accolla una responsabilità, quella di come porsi di fronte al volto nuovo che gli abbiamo mostrato, alla nostra anima messa a nudo. E non è detto che l’altro ce ne sia grato. E’ così, secondo te?
I segreti sono potentissimi. Tutti ne abbiamo almeno uno che conserviamo per un po’ di tempo oppure per sempre. Ci sono segreti che sono gesti d’amore e che non riveliamo mai per non consegnare a chi amiamo il peso di doverli elaborare. Che fine fa un segreto quando viene svelato? Chi lo riceve può perdonarlo, ignorarlo, metterselo alle spalle oppure inglobarlo nell’immagine (per forza nuova e più complessa) che ha dell’altro. I segreti sono spazi di libertà temporanea che corrono il rischio di diventare pesi ingombranti.
Nel ringraziarti di essere stata con noi, ti chiedo se stai già lavorando a un nuovo progetto o se per ora intendi goderti questo straordinario risultato.
Ho un paio di temi attorno ai quali sto ragionando, ma non ho ancora deciso in che direzione muovermi. Sto aspettando che qualche sassolino sul sentiero mi indichi la strada migliore.
Grazie a voi per l’intervista.