Favole da incubo, R. Bruzzone – E. Valente

Favole da incubo – Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora. Roberta Bruzzone, Emanuela Valente.

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“Ci sono casi in cui il nemico dorme nel nostro letto. Non esiste una difesa se non culturale insieme alla consapevolezza delle donne stesse.”

Myrta Merlino

Esiste un confine molto sottile, quasi impercettibile, che delimita i concetti di gelosia e possesso, di rifiuto come affronto e di consapevolezza di sé e del partner, del capriccio puerile che diventa una sfida anche agli occhi degli altri e della maturità. La volontà di varcare tale confine, quasi sempre, genera violenza: irrefrenabile, spietata, letale.

Secondo una recente indagine condotta dall’ISTAT, in Italia, mediamente, ogni due giorni la vita di una donna viene spezzata dalla violenza di un uomo. Il “suo” uomo, nella maggior parte dei casi. E questo è un dato agghiacciante…

Ma cosa spinge un individuo a commettere abusi, maltrattamenti, angherie verso un proprio simile, che non di rado sfociano nel peggiore dei modi? Una delle cause principali è da ricercare certamente nella frustrazione generata dall’abbandono, percepito spesso come un affronto, una umiliazione ingiusta e immeritata, che mette a nudo fragilità enormi, e muta radicalmente l’assetto di vita.

“Bisogna fare un passo indietro, entrare nella testa delle donne e degli uomini italiani, dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine. E dobbiamo scendere così in profondità da riuscire a ricostruire fedelmente il percorso che li ha portati a sviluppare schemi comportamentali, valoriali e educativi di chiara matrice patriarcale. Perché ciò che siamo, ciò che pensiamo, il tipo di persone che siamo diventati, non è solo il risultato della nostra storia personale. Siamo all’interno di un contenitore molto più grande, di un percorso molto più antico, di una storia che è cominciata ben prima della nostra nascita e di quella dei nostri genitori.”

La dimensione da tenere in considerazione è molto ampia, ed è anche relativa oltre che alle naturali inclinazioni, anche al contesto in cui un individuo cresce, all’educazione, alla religione, alle abitudini acquisite nel corso del tempo. Tutto ciò può essere sintetizzato con un solo termine: stereotipo.

“Gli stereotipi sono, in estrema sintesi, delle rappresentazioni semplificate della realtà. In pratica, sono un insieme di credenze che vengono associate, senza distinzioni né verifiche, a un intero gruppo di persone. Sono spesso riferiti alla razza, ma non solo: anche a genere, religione, etnia. È dall’erronea e arbitraria generalizzazione causata dagli stereotipi e dalle categorizzazioni di qualunque tipo che scaturiscono poi i pregiudizi, cioè la tendenza a giudicare una persona in base agli stereotipi vigenti sulla categoria alla quale appartiene o in cui viene, a torto o a ragione, collocata (…). Gli stereotipi possono avere numerosi effetti e portare alla disuguaglianza e alla discriminazione, perché possono influenzare le aspettative sugli altri senza preoccuparsi di conoscerli davvero (…). Dallo stereotipo al pregiudizio il passo è molto breve (…). È vero, gli stereotipi sono molto resistenti. Ecco perché le donne sono costrette a esserlo molto di più, se vogliono vederli tramontare per sempre.”

Roberta Bruzzone, psicologa forense e criminologa, ed Emanuele Valente, esperta di comunicazione e blogger, hanno scritto insieme questo libro nel quale analizzano alcuni casi di femminicidio, anche mediatici, soffermandosi sulle diversità degli approcci iniziali e delle evoluzioni dei rapporti che però, purtroppo, si ritrovano ad avere lo stesso tragico finale: l’assassinio della partner. Troppo indipendente, troppo audace, troppo intelligente, troppo poco incline alla sottomissione e all’ubbidienza. Sempre troppo insomma, quando ci si trova di fronte a un uomo poco maturo, poco consapevole, poco sicuro, poco intraprendente, poco empatico.

Non possiamo non ricordare Noemi Durini, sedici anni, massacrata, accoltellata e sepolta viva da Lucio Marzo nel settembre del 2017 a Specchia, nel foggiano. Lucio è solito picchiare Noemi, anche in presenza degli amici e degli insegnanti. Ma Noemi è troppo innamorata ed è persuasa che quel sentimento potrà cambiare gli atteggiamenti di quel ragazzo poco amato dalla madre e bistrattato dal padre. Ma Lucio è confuso, sospeso tra l’incudine e il martello, tra Noemi e la sua famiglia ingombrante e prepotente. Il giovane vive una situazione psicologicamente esplosiva, e non riesce più a tenere sotto controllo le proprie emozioni. Si sente intrappolato e costretto a fare una scelta: la sua famiglia o il suo primo, acerbo amore. E sceglie. La notte del 3 settembre 2017 si mette alla guida dell’auto della madre e va a prendere Noemi. Si fermano in una campagna a Castrignano del Capo, fanno l’amore tra gli ulivi, come è già accaduto altre volte e mette in atto il suo diabolico piano.

“Con un coltello l’ha pugnalata a tradimento al collo, trafiggendole la laringe. L’ha vista vomitare sangue, barcollare e cadere a terra. L’ha trascinata per alcuni metri, fin sotto il muretto a secco che sorregge un terrazzamento di ulivi, e ha iniziato a ricoprirla di pietre, quelle pietre bianche e tondeggianti che si vedono qua e là, sparse per le aspre campagne del Basso Salento. Mentre lei ancora respirava, l’ha sepolta viva e lasciata lì, dove sarebbe morta poco dopo. Adesso sì che le ha preso veramente tutto. Compreso l’ultimo respiro (…). Il suo corpo è stato ritrovato solo il 13 settembre, grazie alle indicazioni fornite dallo stesso assassino (…). Lucio Marzo è stato condannato dalla Corte d’Appello a diciotto anni e otto mesi di reclusione per omicidio. Ha rinunciato al ricorso in Cassazione. Le perizie svolte hanno certificato che quando ha commesso il delitto era perfettamente capace di intendere e di volere.”

Noemi, abbagliata dal suo sentimento, sperava di salvare il suo Lucio, anche da se stesso…

“È un errore madornale pensare che l’amore sia una sorta di medicina, di panacea che può curare qualunque cosa e trasformare in meglio le persone. La realtà è ben diversa: l’amore, anche il più forte e devoto, non ha questo potere trasformativo. Ma l’errore maggiore è a monte: non si può pensare di amare qualcuno che ci tratta male, che non ci rispetta e che in qualche modo ci limita in tutto quello che riguarda la nostra vita. Soddisfare tutte le sue richieste, anche le più assurde, pensando così di arrivare a cambiarlo non servirà a nulla, se non a mortificare se stessi. Il rischio maggiore è che, accecati dall’idea di doverci prendere cura di qualcuno, non ci accorgiamo che è la persona sbagliata per noi: ci illudiamo, forse, che lo sarebbe se solo riuscissimo a cambiarlo, e così non vediamo ciò che realmente è (…). Un partner aggressivo, violento, possessivo, che ci fa richieste assurde e tenta di controllare la nostra vita, non ci ama e non sarà mai capace di amarci, anche se dice il contrario. Quindi non vale la pena di dedicare a lui le nostre energie e il nostro amore.”

E ancora, Barbara Cicioni, trentatré anni, strangolata dal marito Roberto Spaccino all’ottavo mese di gravidanza.

“Ogni giorno, Roberto trova un pretesto per picchiare la moglie, per tirarle i capelli, per insultarla. Basta un po’ di polvere, un calzino spaiato, una cena non ancora pronta e giù parolacce, sputi, calci, smanate e sventoloni. Barbara inizia a credere di essere lei a sbagliare qualcosa. Può e deve fare di più e meglio. E cosa c’è di più e di meglio che essere incinta? Questa volta il magico incantesimo non può non funzionare: con l’arrivo del primo figlio, maschio come vuole lui, quel marito arrogante e violento cambierà sicuramente, trasformandosi nell’uomo premuroso per cui Barbara si sta impegnando tanto. Ma, ancora una volta, le sue aspettative vengono deluse. Amaramente. Neppure il tanto desiderato arrivo di Nicolò riesce nel miracolo. Anzi, Roberto si rivela, oltre che un pessimo lavoratore e un pessimo marito, anche un pessimo padre. Il pancione di Barbara non lo ferma: anche in gravidanza la prende a pugni, a calci, a sputi, a parolacce. Così con Nicolò, così con il secondo figlio, Filippo. E poi con Elena, che per colpa sua da quel pancione non potrà neppure uscire.”

Roberto la tradisce, la umilia, la denigra, la minaccia di morte, anche pubblicamente. Ormai la odia, ma non può divorziare. Mai. Meglio restare vedevo. Barbara si rende conto che tutti gli sforzi profusi, tutte le umiliazioni e le violenze subite non sono servite a niente se non ad alimentare ancora di più quell’astio e quel risentimento da parte di suo marito. È stremata, nel corpo e nell’anima. Ed è decisa: vuole il divorzio e denuncia tutti i maltrattamenti ricevuti. E Roberto esplode. Barbara e la sua bimba che porta in grembo, arrivano ad un tragico capolinea la notte tra il 24 e il 25 maggio 2007. Il 18 marzo 2008, in un’aula di tribunale italiano per la prima volta si parlerà di femminicidio, così spiegato dalla giurista Barbara Spinelli:

“L’uccisione di Barbara Cicioni rappresenta l’atto ultimo di una serie di comportamenti svilenti, denigratori, violenti, che hanno caratterizzato il rapporto di Spaccino con la propria coniuge: un costante annientamento della libertà e della personalità di Barbara “in quanto donna”, perché aveva scelto di rivendicare la propria autonomia decisionale non interpretando il classico ruolo di moglie e madre sottomessa e casalinga. Un femminicidio perché Barbara mai è stata considerata nell’ambito relazionale dal marito un “soggetto” la cui sfera di dignità, integrità fisica e libertà morale di autodeterminazione andasse rispettata.”

Il sogno di Barbara di poter vivere una vita matrimoniale serena e appagante è stato infranto da un uomo privo di scrupoli. Un uomo che lei ha amato. Un uomo che lei ha immaginato e sperato potesse cambiare…

“La verità è che il matrimonio è solo una formalità e resta tale se non è supportato da una quotidianità coerente con il suo giuramento. Separarsi non è un errore, anzi: è un atto coraggioso, quando l’unione è infelice, ed è un atto dovuto quando è violento. In certi casi, è l’unico modo per vivere coerentemente con se stessi, aldilà delle opinioni della gente (…). È questo che dà il senso del femminicidio, che non è un delitto privato, ma sociale. Un uomo considera di sua proprietà una donna. Un’intera società avalla il diritto di possesso di quell’uomo. Un diritto che non ha nulla di legale, di giusto e neanche di naturale. Un diritto che consente di disporre della vita, e della morte, delle donne.”

E poi c’è Guerrina Piscaglia, cinquant’anni, uccisa dal vice parroco Gratien Alabi, da tutti conosciuto solo come padre Graziano, che ne ha occultato il cadavere: Elena Ceste, trentasette anni, ammazzata dal marito Michele Buoninconti, sparita il 24 gennaio 2014 e ritrovata solo dopo mesi, il 18 ottobre; Arianna Flagiello, trentadue anni, istigata a suicidarsi gettandosi dal balcone di un appartamento sito al quarto piano dal convivente Mario Perrotta; Roberta Ragusa, sparita all’età di quarantaquattro anni, mai più ritrovata. Il marito, Antonio Logli, è stato condannato per omicidio e occultamento di cadavere; Valentina Pitzalis, trentaquattro anni, bruciata dal marito, ma sopravvissuta; Ilaria Palummieri, venti anni, uccisa insieme al fratello Gianluca da Riccardo Bianchi, ex fidanzato di Ilaria e amico di Gianluca; Maria Cristina Omes, trentotto anni, uccisa insieme ai figli Giulia, quattro anni, e Gabriele, venti mesi, dal marito e padre Carlo Lissi. E ancora l’orrore più grande, una vendetta trasversale, vede protagonisti di una follia macabra due bambini, Andrea, dodici anni, e Davide, nove anni, soffocati e poi bruciati dal padre Pasquale Iacovone per punire la madre, Erica Patti.

Ma allora, rispetto a così tanto orrore cosa si può fare? In primis, sicuramente educare soprattutto le nuove generazioni a non cadere nel circolo vizioso e perverso degli stereotipi, deleteri per tutti, a prescindere dal genere. È poi cercare di tenere ben presente alcuni punti essenziali:

-non possiamo salvare nessuno da se stesso, neanche con tutto l’amore del mondo. Non siamo crocerossine, non possiamo fare magie e non abbiamo gli strumenti per aiutare chi non vuole aiuto;

-è insano far dipendere le proprie soddisfazioni da altri così come lo è pretendere più di quanto l’altro sia disposto a dare o a fare;

-ogni donna è prima di tutto una persona con bisogni e desideri e ha il pieno diritto di soddisfarli;

-non bisogna temere l’errore e men che mai l’opinione delle persone. Ognuno ha il diritto di scegliere per se e di sbagliare eventualmente ma con la propria testa;

-la paura e la cieca obbedienza non proteggeranno mai nessuno;

-nessuno dovrebbe mai annullarsi per qualcun altro. L’amore vero prende nella misura in cui dà perché l’amore è crescita comune e condivisione. Se qualcuno ci chiede di rinunciare a come siamo, ai nostri progetti, ai nostri affetti, non ci ama. Questo è solo un meccanismo che ci rende più vulnerabili;

-l’amore non è dipendenza;

-proteggere i bambini significa prima di tutto allontanarli dalla violenza e da chi la commette. Restare insieme “per il loro bene” può essere il male peggiore;

-la felicità non è il matrimonio e il sogno della famiglia perfetta. Nella realtà non esiste;

-gli stereotipi di genere sono prigioni, e lo sono per tutti: per le donne come per gli uomini, perché impongono ruoli preconfezionati per noi da altri;

-la violenza assistita è una forma subdola e insopportabile di violenza, che provoca danni irreparabili per generazioni;

-le conseguenze di un femminicidio non riguardano solo la vittima, ma coinvolgono un gran numero di persone, in primis i figli.

La violenza di genere è una tematica estremamente delicata. È una piaga della civiltà, e deve essere contrastata con ogni mezzo. Dobbiamo prestare attenzione ai campanelli d’allarme, che spesso preannunciano eventi drammatici. Dobbiamo essere cittadini attivi: non possiamo girarci dall’altro lato nel momento in cui dovessimo renderci conto che un familiare, un amico, un conoscente subisce una qualsiasi forma di violenza o di sopruso. E, soprattutto, siamo tenuti ad educare le nuove generazioni al rispetto inteso in tutte le sue forme: ricevere un rifiuto non equivale a sentirsi dei perdenti. La fine di una relazione o di un matrimonio non è un fallimento: è semplicemente la fine di un rapporto che non aveva più le forze e le sostanze per poter proseguire in modo sano e funzionale. Nessuno appartiene a nessuno se non a se stesso. La violenza, verbale, fisica e psicologica va denunciata: nessuno ha il diritto di ferire, fisicamente o emotivamente, un’altra persona.

Facciamo in modo che questi non restino solo buoni propositi. Chiunque può ritrovarsi vittima di un amore malato e, pertanto, tutti siamo chiamati ad agire con consapevolezza e senso civico.

Dieci casi di cronaca nera tra i più sconvolgenti degli ultimi anni. Una criminologa e una giornalista da sempre in prima linea contro la violenza sulle donne. Un’analisi lucida e necessaria degli stereotipi di genere che hanno provocato queste tragedie annunciate, per sconfiggerli una volta per tutte.

I maschi sono intelligenti, le femmine sono utili. I maschi sono “progettati” per comandare, le femmine per accudire. Gli uomini devono provvedere economicamente alla famiglia e realizzarsi nel lavoro, le donne devono stare a casa. Questi sono solo alcuni degli stereotipi di genere più comuni che ancora permeano la nostra cultura. Pensate che siano in gran parte retaggi di un passato ormai superato? Questo libro ci dice che non è affatto così. Gli stereotipi di genere sono tra noi, ogni giorno. E no, non sono affatto “innocui”, come molti sembrano considerarli. Attraverso la ricostruzione di dieci casi di femminicidio tra i più sconvolgenti degli ultimi anni, Roberta Bruzzone ed Emanuela Valente analizzano i principali preconcetti culturali e sociali che hanno operato in queste vicende inconcepibili, eppure reali. Stereotipi, pregiudizi e tabù a cui hanno obbedito un po’ tutti: le vittime, gli assassini, l’opinione pubblica e perfino i media che ne hanno parlato. Il quadro che ne emerge non è consolatorio: le idee sessiste sono ancora molto radicate, in ognuno di noi, senza distinzioni di condizione economica e culturale. Lungi dal voler giudicare, ma con lucidità e senza fare sconti a nessuno, Favole da incubo intende aiutarci a prendere coscienza di quelle voci che parlano dentro di noi, spingendoci ancora, nostro malgrado, a fare distinzioni di genere nella vita di ogni giorno. Perché la presa di coscienza è il primo, necessario passo per cominciare a scardinare questi schemi mentali e fare in modo che crimini tanto orribili non trovino più un terreno in cui mettere radici, crescere e riprodursi. Intervenire in tempo per fermare l’escalation è possibile, e soprattutto è possibile innescare quel profondo cambiamento culturale che può mettere fine una volta per tutte alla violenza sulle donne.

Autore: Roberta Bruzzone, Emanuela Valente
Editore: De Agostini
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 17 novembre 2020
Pagine: 304 p., Brossura
EAN: 9788851184131


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Pubblicato da Fabiana Manna

Salve! Sono Fabiana Manna e adoro i libri, l’arte, la musica e i viaggi. Amo la lettura in ogni sua forma, anche se prediligo i thriller, i gialli e i romanzi a sfondo psicologico. Sono assolutamente entusiasta dell’idea della condivisione delle emozioni, delle impressioni e delle percezioni che scaturiscono dalla lettura e dalla cultura. Spero di essere una buona compagna di viaggio!

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