Tornano le avventure del Dottor Gardenia
Il dottor Gardenia di Lucio Sandon torna con una nuova avventura.
Il dottor Gardenia aveva sempre saputo di non essere l’unico tra i figli della nebbiosa
pianura veneta a essere stato rapito dal mare verde delle pinete alle falde del Vesuvio, ed
esservi rimasto imprigionato per sempre. Molto, ma molto prima di lui, un altro veneto
molto, ma molto più illustre di lui, aveva soggiornato a lungo in zona, approfittando per
impiantarvi una notevole attività industriale come per tradizione dei suoi conterranei, e
regalando a Napoli quelli che sarebbero diventati un giorno i nuovi simboli della città.
Il marchese Antonio Canova nacque nella bassa trevigiana nel giorno dei morti del 1757
ma ben presto le gelide brume che ristagnano tra il Brenta ed il Piave cominciarono a
provocargli dei fastidi per cui decise di trasferirsi al sud. Scelse la bellezza imponente di
Roma come base per i suoi capolavori, ma per svariati anni visse e lavorò all’ombra del
vulcano, dove esisteva una solida tradizione nella lavorazione del bronzo.
Ferdinando I di Borbone, stranamente era tornato indietro nella numerazione fino
all’ultimo disponibile, avendo già cambiato due volte il numero dopo il suo nome,
partendo dal quarto e passando per il terzo senza curarsi del secondo. Insomma, il re
aveva commissionato al marchese Canova le due grandi statue equestri che avrebbero
dovuto completare lo splendore dell’ enorme piazza semicircolare antistante la reggia di
Napoli: la sua, in posa plastica ed eroica e quella del suo grande genitore, Carlo III in
atteggiamento da imperatore romano.
Antonio accettò con entusiasmo. Aveva il suo bravo fabbro di fiducia, il quale però era
di Roma, e per fondere le due statue aveva bisogno di un’officina sul posto. Fu così che il
valente artigiano andò in giro in quella che era la zona industriale della capitale del regno
delle due Sicilie finché trovò una struttura che gli conveniva: un grosso capannone nei
pressi di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.
Come ben si sa, la messa in opera di un’officina meccanica per la produzione di bronzi,
non è cosa che può passare inosservata: l’impianto della fumosa fabbrica diede subito sui
nervi a Francesco d’Aquino principe di Caramanico, il facoltoso proprietario della villa
vicina, il quale ebbe fin da subito in estremo disgusto i fumi provenienti dalla fonderia.
Bè, vicina per modo di dire: prima di giungere alle sfarzose terrazze di villa Vannucchi, le
esalazioni che irritavano le nobili narici attraversavano un bosco di querce, lecci,
magnolie, cedri, mimose e albicocchi, grande quasi come quello che circondava la tenuta
del suo sovrano, nella confinante città di Portici.
Ubi major, minor cessat: nonostante le proteste del potente nobiluomo, la fonderia
continuò a lavorare per il re e per Canova e a sfornare le meravigliose opere del sommo
artista per molto tempo, al punto da prendere radici nel lessico popolare e dare il nome a
tutta la zona, conosciuta ancora oggi come “Cavalli di Bronzo”.
Caramanico, come fu anni prima per il suo venerato padre, dovette far buon viso a
cattivo gioco e sottomettersi alla volontà del suo re.
La signora Carmela abitava vicino alla stazione del trenino che fa il giro di tutto il
Vesuvio, e che da sempre si chiama proprio come le statue dello scultore trevigiano.
La donna aveva casa in una posizione invidiabile tra due ville magnifiche, villa Bruno e
villa Vannucchi, e per sua fortuna la fonderia era chiusa già da molti anni.
Carmela però non stava bene: alta circa un metro e mezzo, aveva dei begli occhi neri
spalancati sul mondo che non comprendeva a pieno, e una bocca dalle turgide labbra
sempre coperte da grossi strati di rossetto vermiglio che facevano risaltare i capelli dello
stesso colore, acconciati come Moira Orfei.
Non stava bene nemmeno il signor Giuseppe suo marito: un pezzo d’uomo che avrebbe
potuto sollevare il dottor Gardenia con una mano sola, ma che non riusciva a
concentrarsi su nient’altro che non fosse il fornello della sua pipa o il modo di mettere
un piede davanti all’altro.
Fortunatamente per loro, i signori Esposito godevano di ottime pensioni per invalidità
totale, conseguite in virtù della quasi assoluta demenza che fortunatamente concedeva
loro dei frequenti sprazzi di lucidità, per la breve durata dei quali si comportavano in
modo perfettamente normale, e potevano addirittura prendersi amorosa cura di uno
splendido gatto, un incrocio di soriano grigio tigrato, chiamato Zucchero.
Il micio, il cui nome rispecchiava in modo totale la dolcezza del carattere, ma che gli era
stato imposto per via del colore degli occhi uguale a quello delle antiche confezioni dello
zucchero, sembrava portare dentro di sé tutta la saggezza che mancava ai suoi stravaganti
padroni.
«Signurì, Zucchero sta malato, per piacere potete venirlo a prendere a casa per curarlo?
Signurì, voi lo sapete, io mi dimentico di dargli le medicine, e poi Peppino mio marito,
che Dio lo conservi, certe volte invece di prendersi le sue pillole per la pissicosi, si è
ingoiate quelle che mi avete dato per Zucchero quando aveva i vermi, e poi si è sentito
male!»
Marisa, che riusciva sempre a rispondere al telefono per prima, rimase per qualche
istante basita, pensando ad uno scherzo, poi riconoscendo la voce della signora Esposito,
sbarrò gli occhi grigiochiari e puntò il telefono verso il titolare che era proprio lì vicino,
toccandosi ripetutamente la tempia con l’indice dell’altra mano e contemporaneamente
gonfiando le gote: la signora Esposito non solo era un po’ fuori di testa ma anche un po’
fuori forma.
Il dottor Gardenia dapprima tentò di negarsi, facendo un passo indietro e agitando la
mano davanti a sé, poi però dovette rispondere, perché Marisa gli sbatté il ricevitore in
mano dopo aver rassicurato l’ansiosa signora dall’altra parte del filo.
«Un attimo soltanto, le passo il primario!»
Il primario, dopo aver maledetto silenziosamente la sua maligna aiutante, ascoltò la
telefonata tenendo il ricevitore a venti centimetri dall’orecchio, senza riuscire ad
interrompere nemmeno per un attimo il fiume in piena della logorrea altisonante della
signora Esposito, limitandosi a qualche si e qualche no accompagnati dai relativi
movimenti del capo, quando la donna gliene dava il tempo. La telefonata terminò
proprio con un si, in risposta alla domanda “vi ricordate dove abito?”
Via Cavalli di Bronzo a San Giorgio a Cremano è una strada lunga e tortuosa dove
convivono due dimore patrizie, Villa Bruno, con annesso capannone della fonderia di
Canova, ora tristemente abbandonato, e Villa Vannucchi. Poi c’è un mercatino rionale, la
stazione della Circumvesuviana, alcune abitazioni di lusso, palazzi borghesi, case
coloniche e vere e proprie catapecchie. Naturalmente la signora Esposito non dimorava
in una villa: la casetta a un piano aveva un’aria di abbandono, il cancelletto un po’
sbilenco e arrugginito era privo di targa e di campanello, ma una finestra al piano terra
fungeva egregiamente da citofono e da cappa per la cucina.
Dalla finestrella semiaperta, in quel limpido mattino d’autunno inoltrato, si propagava un
profumo celestiale.
«Signora! Signoraa!»
«Ma insomma chi è?»
«…Veterinario!»
“Che vuoi, veterinario?”
«Signora, abbia pazienza, mi ha chiamato per Zucchero, ci siamo sentiti al telefono meno
di mezz’ora fa.»
«Ummaronnamiadottòscusatetanto, sò nu poco distratta, m’aggio scurdate, venite venite,
ma poi ditemi una cosa, veterinario… Perchè non dite “il dottore di Zucchero”?»
D’abitudine, essendo un po’ prevenuto rispetto al disagio mentale, il dottor Gardenia
quando si recava a far visita a Zucchero a domicilio, si portava una guardia del corpo,
nella persona di Alessandra, la bionda giunonica dagli occhi verdi, che incuteva un senso
di rispetto da parte della signora Esposito e un atteggiamento di sdilinquimento amoroso
da parte del consorte. In questo caso ci si era accordati che il dottor Gardenia sarebbe
entrato in casa, mentre l’assistente avrebbe fatto da palo all’esterno, intervenendo solo in
caso di difficoltà.
Normalmente, il procedimento per il recupero del gatto era il seguente: Zucchero, non
appena vedeva il veterinario, saltava agilmente al di sopra dei pensili della cucina, facendo
cadere rovinosamente la collezione di lattine di birra vuote che il signor Esposito
collezionava da anni e riposizionava poi puntigliosamente nella solita architettura
traballante con cura maniacale, scusabile nel suo caso essendo affetto proprio da tale
sindrome. Recuperata senza l’aiuto dei padroni di casa una scaletta pericolosamente
sgangherata, il paziente professionista si arrampicava con cautela fino alla sommità del
mobiletto, mentre la signora Esposito contemporaneamente sorreggeva in qualche modo
l’attrezzo e urlava a squarciagola contro il marito, il quale in genere proprio in quel
momento sentiva la necessità di recuperare la pipa lasciata nell’angolo opposto della
cucina passando sotto la scala. Contemporaneamente la brava donna inveiva anche
contro Zucchero, nel vano tentativo di convincerlo a scendere, e ottenendo solo di farlo
spostare più lontano. Il micio invariabilmente finiva con l’abbattere tutta la metallica
impalcatura delle birre, con fracasso micidiale e lamentazioni del buon Peppino per la
distruzione del suo capolavoro. Il simpatico micione, quando vedeva avvicinarsi il suo
dottore a portata di braccio, scendeva con un balzo altrettanto agile dalla cucina e si
infilava sotto il letto, dove il suo carattere scherzoso lo portava a giocare a nascondino
per un lasso di tempo molto preciso, cioè fino a quando, persa la sua proverbiale
pazienza, il dottor Gardenia si impadroniva di una scopa, e infilandosi carponi sotto il
letto, minacciava il felino fino a convincerlo ad recludersi spontaneamente nel suo
polveroso portagatti.
Quella volta invece, Zucchero si era acciambellato tranquillamente sul tavolo della
cucina, e osservava con aria attenta e interessata un grosso tegame che sobbolliva su di
una fiamma bassissima, e dal quale proveniva un aroma inconfondibile, che lo aveva con
ogni evidenza inebriato.
«Dottò, se volete favorire con noi, sto preparando la Genovese.»
La serietà professionale del dottor Gardenia, che già non arrivava al minimo sindacale,
ebbe un grosso nocumento dalla proposta: la Genovese era uno dei suoi piatti preferiti e
si sentiva che la signora Carmela faceva parte della scuola napoletana della Genovese più
tradizionalista, quella che intende la pietanza, peraltro sconosciuta nella città della
Lanterna, come piatto unico e completo: primo, secondo e contorno.
La storia dice che nel 1971 a Parigi, una ricercatrice transalpina, la dottoressa Marianne
Mulon, riportò alla luce due trattati di arte culinaria medioevale, conservati nell’Archivio
Nazionale Francese. Uno dei due era il Liber de Coquina, di un anonimo autore
trecentesco, cuoco alla corte angioina napoletana: si trattava di un ricettario del mondo
principesco e colto dell’epoca, che attingeva a culture diverse e internazionali, degne del
dedicatario, Carlo II d’Angiò. E’ proprio in questa miscellanea di ricette scritte in latino,
in cui si nomina per la prima volta la “Tria Ianuensis”. Tria deriva dall’arabo itriya, itria in
greco, e con tale nome si usavano indicare ancora in età bizantina, vari tipi di pasta.
La traduzione dal latino della ricetta al numero sessantasei del ponderoso volume, suona
all’incirca così:
“Per fare la tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti acqua bollente, fa cuocere e
mettici sopra spezie, e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere
formaggio grattato o tagliato a pezzi, e servile ogni qual volta ti piaccia insieme con
capponi o con uova o con qualunque carne.”
Si po’ lu vuo’ fa mbuttunato, pigliarraje nu bello laciertiello, nce farraje nu pertuso a luongo a luongo:
po’ piglia na fella de prosutto e la ntretullaraje, nu poco de petrusino pure ntretato, quatto spicole
d’aglia, pass e pignuole, na capa de casecavallo fatta a pezzulle e la mbottunarraje: miettelo dint’a nu
tiano cu llardo pestato, na cepolla ntretata, sale, pepe e tutte spiezie e fallo zuffrijere buono,buono:
confromme s’arrussesce miettece nu poco d’acqua a la vota e accossì farraje nu bello brodo pe li
maccarune e pe ogne ncosa.
In sostanza si tratta di far cuocere lungamente un ottimo taglio di carne in una gran
quantità di cipolla soffritta in olio d’oliva, facendo in modo che l’ortaggio perda la sua
asprezza e rimanga solo la dolcezza ad abbracciare i lunghi ziti spezzati a mano, che
sposeranno il sugo paradisiaco. Formaggio grattugiato a piacere.
A salvare il giovane veterinario dall’ennesima burla da parte delle sue aiutanti che lo
accusavano di distrarsi troppo spesso alla vista di giovani signore e di pietanze regionali,
ma senza immaginare di metterlo in una situazione molto più pericolosa, ci pensò il
bravo gatto Zucchero, il quale girando i suoi occhi luminosi verso la porta, inquadrò in
una frazione di secondo la situazione rischiosa, e con un movimento fluido ed elastico
balzò a terra,si infilò tra le gambe della padrona, e scomparve immediatamente nella
baraonda della camera da letto, evitando per una volta la scalata ai mobiletti di cucina.
“Fregato” pensò tra sé il dottor Gardenia “sei in trappola!”
«Presto signora, chiudiamo la porta!»
La brava cuoca obbedì all’istante, non senza urlare all’indirizzo del marito:
«Peppì, Peppìììì, à Genovese!» Con la speranza che Peppino non si perdesse nella
contemplazione delle sue ciabatte sfondate e si ricordasse di controllare la cottura della
carne. Peppino, il quale invece una volta tanto sembrava seguire con interesse i
movimenti che avvenivano in casa, seguiva gli avvenimenti con attenzione, anche se
non riusciva a sentire tutto in modo chiaro, essendo un po’ duro d’orecchio, e purtroppo
la batteria dell’apparecchio acustico era quasi scarica.
«Signora Carmela, le dispiacerebbe prendere una scopa?»
Venne recepito dal sospettoso marito come «Carmela, le piacerebbe se la scopo?»
provocando un senso di inquietudine nella montagna umana, che afferrò per un braccio
la moglie nel momento in cui usciva per recuperare l’attrezzo richiesto dal veterinario.
«Cosa state facendo di là?»
«Peppì, pensa alla Genovese, statte zitto.» Carmela si richiuse la porta dietro le spalle,
rafforzando il gesto di esclusione con una mandata di chiave. Alla flebile domanda del
giovane professionista, la signora Carmela rispose urlando a squarciagola per farsi sentire
dal consorte:
«Niente dottò, Peppino è geloso… Si crede che vulite fa l’ammore cu mme.»
Il geloso, che origliava dall’altra parte porgendo il lato guasto del suo apparecchio, udì
solo le ultime quattro parole, e nella sua mente obnubilata immaginò la scena
dell’amplesso tra la voluttuosa consorte e il giovane fedifrago, così in preda alla frenesia
afferrò dal suo supporto il grosso mattarello, principe degli accessori di cucina della
signora Carmela, e cominciò a spingere con forza sulla porta della camera da letto.
Tale porta, prodotta da una fabbrica nota per i prezzi bassi e per la scarsa qualità dei suoi
prodotti, dopo un flebile tentativo di resistenza cedette di schianto sulla schiena della
matura casalinga, mandandola a rovinare addosso al dottor Gardenia inginocchiato e
con la testa sotto il letto, intento a convincere Zucchero ad arrendersi e dando così a
Peppino la conferma dell’orribile tradimento che avveniva sotto i suoi occhi.
La reazione fu immediata, e il mattarello venne calato con forza sul cranio dello
stupratore, il quale però fortunatamente non subì il trauma in quanto protetto dal
corpaccione della sua amante, che si beccò la bastonata giusto tra capo e collo, svenendo
all’istante.
«Maledetto – Urlò Peppino, di solito il più mite degli uomini – vieni fuori che ti
ammazzo!»
Il dottor Gardenia, resosi ora conto del pericolo, si guardò bene dall’obbedire, anzi si
buttò agilmente sotto al lettone, raggiungendo finalmente Zucchero, che ora si lasciava
avvicinare e lo osservava con interesse leccandosi con calma la zampina.
Da cacciatore a preda, il veterinario fu varie volte colpito dalla scopa manovrata
goffamente da Peppino, che sempre più agitato urlava frasi sconnesse ma non prive di
accenti omicidi, finché alla fine, incalzato dai colpi di ramazza, il dottor Gardenia fu
costretto a uscire dall’altro lato, al cospetto del redivivo Otello. Il gigante, vedendo il
rivale alla portata di mattarello tentò di raggiungerlo saltando sul letto, e in quel
momento il dottor Gardenia stretto nell’angolo, pensò che per lui fosse finita,
disperandosi per quella morte assurda che avrebbe privato il mondo della sua
fondamentale presenza. Nell’atto di sferrare il colpo mortale, urlando a squarciagola,
Peppino però si irrigidì con il mattarello alzato, strabuzzò gli occhi, e cadendo riverso sul
letto che tentava di scalare, rotolò giù tremando e sbavando addosso alla sua robusta
amata che giaceva ancora esanime.
Fu così che il dottor Gardenia capì di essere stato salvato da una crisi epilettica, e rivolse
un grato pensiero al suo angelo custode e a San Valentino, protettore degli innamorati
ma anche degli epilettici. Quando il veterinario riaprì gli occhi, si accorse di essere
ancora vivo, e si guardò intorno: Carmela e Peppino, riversi uno sull’altro respiravano a
fatica mentre Zucchero, sempre più tranquillo e interessato, faceva le fusa contro la
gamba del suo medico.
Dopo averci pensato per pochi secondi, il veterinario guardò il gatto negli occhi e gli
sussurrò: vieni con me, o rimani con questi due?
Zucchero non esitò un attimo e si accomodò nel trasportino.
Uomo e gatto superarono in fretta i corpi distesi sul pavimento, diretti verso la porta di
ingresso, ma arrivati sull’uscio l’uomo si voltò indietro, tornò sui suoi passi e sollevò la
cornetta del telefono appeso al muro della cucina, facendo rapidamente un numero
sull’antiquato disco: «Pronto ambulanza? Un matto ha aggredito sua moglie e poi si è
sentito male si, si, Via Cavalli di Bronzo, venite subito!»
Il dottor Gardenia prese di nuovo la porta per fuggire, ma all’improvviso venne colto da
un altro pensiero fulminante. Tornò rapidamente sui suoi passi con il fardello vivente
stretto sotto il braccio, e andò alla cucina a spegnere il fornello dove stava lentamente
sobbollendo la Genovese. Poi dopo un’altra breve esitazione mollò il portagatti e afferrò
il grosso filone di pane di San Sebastiano dal tavolo, ne ruppe l’estremità e sollevando il
coperchio si beò per un istante del delizioso profluvio, quindi immerse nel denso
sughetto il “cozzetto” debitamente svuotato dalla mollica, riempendolo con dovizia di
pezzetti di carne e cipolla. Poi, dopo essersi guardato intorno, richiuse la pignatta e si
allontanò brontolando per le ustioni al palato e insultando in modo volgare il povero
Zucchero che si lamentava a gran voce per l’esclusione dal banchetto.
Appena fu in strada, il dottor Gardenia vide Alessandra che si avvicinava: in ansia per il
ritardo del principale stava andando a controllare, ma lui tenendo una mano davanti alla
bocca piena, fece segno alla bionda assistente di mettere in moto il vecchio furgone
azzurro e con altri eloquenti gesti la esortò ad allontanarsi rapidamente.
La ragazza seppur stranita, obbedì senza farselo ripetere due volte.
Zucchero venne portato in ambulatorio, e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, libero di
passare le belle giornate in giardino e di dormire beatamente vicino alla stufa nelle fredde
sere invernali. Carmela e Peppino una volta dimessi dal pronto soccorso vennero
ricoverati in due strutture diverse, dalle quali non uscirono mai più.
Ogni tanto, quando la cucinava, il suo nuovo padrone regalava a Zucchero un pezzetto
della pietanza che a entrambi piaceva di più al mondo, in ricordo della gioventù.