Il dolce polacco, simbolo di Napoli di Lucio Sandon

Reggia di Portico

Oggi per il sabato di Sandon, parliamo del dolce polacco simbolo di Napoli, brandelli di Storia

Dolce polacco

In Austria e Ungheria, il Napolitaner è un dolce ottenuto con la crema delle nocciole importate dalla Campania, che ne è il principale produttore europeo, ma che da noi è conosciuto con l’esotico nome di Wafer. Il Babà invece è il dolce napoletano più famoso in Italia e nel mondo.
Il babà, a tutti gli effetti è un’invenzione polacca.
Stanislao Leszczyński, sovrano di Polonia dal 1704 per circa trent’anni e destituito dal potere, era il suocero di Luigi XV di Francia, e ottenne al momento del suo allontanamento dalla Polonia, il ducato di Lorena. Tuttavia, dato che il ducato si trasformò presto in una cupa prigione dorata, a Re Stanislao non restò altro che trovare conforto nei piaceri del palato, provando ad inventare una nuova specialità: il Kugelhupf. Questo termine attualmente viene usato anche in Baviera, in Austria, in Svizzera, in Tirolo e in Alsazia. Nella Repubblica Ceca è chiamato bábovka, in Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina e Serbia è chiamato kuglof. In Italia, in virtù del lungo legame con l’Impero austro-ungarico di quella città, il dolce fa anche parte della cucina tipica di Trieste, dove viene chiamato cuguluf.
Il dolce consisteva né più e né meno che di un impasto di farina, acqua, zucchero e lievito, cotto al forno. Al re rimaneva però un po’ secco da masticare, così lui, per riuscire a mandarlo giù e per dimenticare i suoi guai, si consolava centellinando un bruno liquore distillato dalla canna da zucchero, proveniente da oltremare. Sembra che in un momento di distrazione o più probabilmente di ubriachezza, abbia fatto cadere il bicchiere pieno di rum nel vassoio del kughelcoso, inzuppandolo per bene. I servitori stavano per portarlo via, ma quando il vassoio gli passò sotto il naso, Stanislao si rese conto che così era molto più profumato e buono da mangiare, e per conferma lo fece assaggiare anche a sua nonna la quale lo gradì oltremodo, anche perché lo poteva gustare perfino senza avere i denti. Furono poi i pasticceri venuti al seguito di Maria Amalia, principessa di Polonia e sposa di Carlo di Borbone, a importare nel regno del sole la tradizione del babà al rum.

Portici è una piccola grande città: quasi sessantamila abitanti stretti in quattro chilometri quadrati, dei quali un terzo è occupato dai boschi della reggia borbonica, è distesa tra il mare e il Vesuvio, e si appoggia languidamente con tutto il suo fianco meridionale al muro dei Boschi Reali, il superiore e l’inferiore della augusta residenza.
La storia della cittadina ebbe inizio qualche secolo prima di Cristo, come stazione balneare di lusso per i più ricchi senatori romani: il nome della ridente cittadina deriva da Villa Pontii: la villa di Quinto Ponzio Aquila, nipote di uno dei congiurati che alle idi di marzo del 43 a.c. pugnalarono Giulio Cesare. (Sì era proprio lui, il nonno di Ponzio Pilato, il prefetto di Giudea.) Del senatore Aquila, durante i lavori per costruire il Real Sito, Don Carlos da Parma ritrovò lo stemma, fatto poi proprio dal municipio di Portici. Sotto il pericoloso e starnazzante rapace infatti, campeggiano ancora oggi le iniziali del regicida.
Si narra che Sua Maestà don Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, scoprì il sito di Portici durante un fortunale: sembra che sia rimasto talmente affascinato dalla caletta in cui dovette riparare con il suo vascello a causa di una tempesta mentre veleggiava nel golfo insieme alla sua signora, Maria Amalia di Sassonia, che decise di farsi costruire un villino per trascorrere qualche ora andando a caccia di quaglie sulle pendici del vulcano, e godere della fresca brezza marina.
Molto più probabilmente, conoscendo la storia e il carattere del buon Carlo, è estremamente più credibile che l’illuminato sovrano abbia tirato fuori il suo libretto degli assegni, e con poche e sapienti parole abbia convinto a traslocare i proprietari dei terreni sul mare posti su di un’altura in posizione strategica sul golfo.
Marino Caracciolo principe di Santobono, Tommaso d’Aquino principe di Caramanico, Giovanni Mascabruno marchese di San Raffaele, e Maurizio D’Elboeuf principe di Lorena, accettarono allora di buona grazia e a denti stretti, alcuni effetti posdatati, giusto per non far innervosire troppo il re, e anche per evitare l’esproprio forzoso delle loro splendide dimore.
Il servizio informazioni del sovrano aveva infatti scoperto che tutta la villa del Caramanico era costruita secondo l’arcana simbologia dei Rosacroce, l’antica setta antesignana della Massoneria, fondata dai discepoli di San Marco nel 46 dopo Cristo.
Probabilmente, gli agenti segreti al servizio del Borbone, avevano anche riferito al loro sovrano che Caracciolo, Caramanico, Mascabruno e Sansevero, insieme ad altri nobili locali, avevano in uggia ed antipatia il nuovo sovrano, temendone giustamente il carattere duro e le idee per quel tempo fin troppo progressiste. Infine, i sacrilegi avevano addirittura stretto contatti con la nascente massoneria inglese, direttamente legata alla corona britannica.
Probabilmente il fatto di voler costruire una reggia proprio a Portici, e sul posto dove esisteva la sede della società segreta più potente dell’epoca, fu presa dallo scaltro sovrano per far capire a chi doveva capire, che la sua politica non ammetteva intralci, ostruzioni o fraintendimenti da parte di chicchessia, e quindi l’approdo al Granatello non fu poi così fortuito come si poteva pensare.
La sede del Dipartimento di Agraria dell’Università Federico Secondo, è ancora splendida nella sua architettura, voluta proprio dal re Borbone per sottolineare la vicinanza della famiglia reale al suo popolo: è infatti l’unica dimora reale al mondo costruita a cavallo di una pubblica strada, e i viandanti e le carrozze che transitavano, come ancora oggi, sulla Regia Via delle Calabrie, passano proprio all’interno di palazzo reale. La trafficata arteria, nel suo percorso verso il Bruzio viene ad essere inglobata nel cortile centrale della reggia, che la avvolge con due cavalcavia, i quali a loro volta raccordano il lato affacciato verso il mare con quello prospiciente la montagna. Al di sotto di uno dei corridoi che passano in alto sulla pubblica strada, c’è un vero gioiello scampato all’abbandono cui era stata destinata la meravigliosa costruzione dopo la conquista da parte dei Savoia: la cappella reale, che in origine avrebbe dovuto essere un piccolo teatro di corte ed infatti ne ha la forma. Fu re Carlo ad accorgersi che nel progetto non era contemplata la chiesa, la quale prese per augusta decisione il posto del teatro di corte.
Il primo musicista a inaugurare l’organo monumentale della chiesa fu un giovanissimo Wolfgang Amedeo Mozart, durante il suo soggiorno a Portici ospite dei Borbone, nell’estate del 1770. Il piccolo genio della musica non ebbe però un grosso successo alle falde del Vesuvio (tra l’altro il conservatorio di San Pietro a Maiella rifiutò di iscrivere Amadeus ai suoi corsi) e infatti in una lettera al padre ebbe a scrivergli: «Adesso la questione è questa: dove posso avere più speranza di emergere? Forse in Italia, dove solo a Napoli ci sono sicuramente almeno trecento Maestri, o a Parigi, dove soltanto due o tre persone scrivono per il teatro e gli altri compositori si possono contare sulle punte delle dita?»
A San Pietro a Maiella si mordono ancora le mani.
Il giovane Mozart fu però certamente uno dei più appassionati frequentatori del serraglio della reggia di Portici, costruito nei giardini del bosco superiore, dove per il piacere del re e dei suoi nobili amici, si tenevano in cattività leoni, tigri, pantere, gazzelle, canguri, e addirittura un elefante africano.
La costruzione della reggia era stata affidata a uno stuolo di architetti e agronomi, guidati da Antonio Medrano, Canevari, Fuga e Vanvitelli, i quali quando fecero notare al re dopo accurati sopralluoghi che la zona poteva essere pericolosa a causa delle eruzioni vulcaniche.
Da re Carlo, i preoccupati funzionari ottennero una secca risposta: «A questo ci penseranno Iddio, l’Immacolata Concezione, e San Gennaro!»
La reggia è ancora al suo posto.

«Pronto, chi è al telefono?»
«Eh, no guardi, lei ha chiamato e deve presentarsi per primo!»
«Ahhh… la signorina Alessandra! Che simpatica! Signorì, ti ho riconosciuta, quell’accento francese che tieni è troppo bello! Signorì, mi fai parlare con il dottore, che gli devo dire una cosa da uomini?»
Alessandra sbatté il telefono sulla scrivania, sperando che almeno gli si rompesse un timpano, ma non aveva tenuto conto del fatto che don Gennaro era un po’ duro d’orecchi.
«Dottò, sei tu?»
Don Gennaro Cucè era un babà, e il suo principale, l’ingegner Umberto, era ancora più babà di lui.
L’ingegnere era il più importante cliente del dottor Gardenia, essendo il felice proprietario di diciotto cani da pastore abruzzese, e don Gennaro era il suo uomo di fiducia, addetto al benessere del branco di candidi giganti, al loro mantenimento ed al trasporto per cure mediche presso il veterinario di fiducia, e all’uopo munito di un furgone riservato al trasporto dei cani dalla villa di Portici dove abitava l’ingegnere. Don Gennaro non conosceva l’uso del lei o del voi. Era un po’ maschilista, troppo amante della buona tavola e del rosso locale, ma era una pasta d’uomo, anzi appunto una pasta di babà.
«Dottò, qua teniamo un problema, Teo (il gigantesco e feroce capobranco maremmano abruzzese) e Mina (una cucciolona di dieci mesi, l’ultima arrivata) si sono attaccati.»
«Hanno litigato?»
«No dottò, niente litigato, hanno fatto l’amore, e adesso stanno attaccati, però se l’ingegnere se ne accorge, mi leva la pelle da dosso, lui me lo aveva detto di stare attento.»
«E tu ti sei dimenticato, vero Don Gennaro? Però adesso non ci puoi far niente, devi solo aspettare un quarto d’ora, vedrai che si staccano da soli.»
«Eh già dottò, tu la fai facile, ma quelli si sono attaccati proprio davanti al cancello della ditta. Qui ci sta un camion che deve uscire, e un furgone del corriere che deve consegnare. Se torna adesso l’ingegnere, per me finisce a schifìo!»
«Cavoli tuoi, Don Gennaro, i cani non si possono staccare, potrebbero farsi del male: l’unica cosa che puoi fare è cercare di spostarli dall’ingresso! Prendi una bella bistecca e mettila sotto il naso di Teo, quello è una belva affamata. Vedrai che per seguire la carne si dimentica anche della sua nuova fiamma!»
Il mattino seguente, il furgone bianco di Don Gennaro era già nel parcheggio dell’ambulatorio, quando il dottor Gardenia arrivò per aprire. Sceso con fatica, ansimando e smoccolando in siculo stretto, l’anziano factotum, capelli candidi, coppola nera e il mezzo toscano fisso all’angolo della bocca, fece scendere dal retro uno splendido cane con un lungo mantello bianco. L’espressione allegra e gli occhi attenti, ispiravano subito simpatia.
«Dottò, ecco la colpevole della rivoluzione di ieri, la devi sgugghiari!»
«Eh… Cosa?»
«La devi crastari!»
«Vabbè Don Gennaro, portala dentro, lo sai che me la devi lasciare per un paio di giorni? La vieni a prendere domani sera.»
Il dottor Gardenia stava per allontanarsi, poi si voltò verso l’anziano autista, come preso da un leggero imbarazzo.
Hem, Don Gennaro scusami, chiedi un po’ all’ingegnere… Facciamo tutto un conto?»
Don Gennaro si bloccò con il guinzaglio di Mina stretto nella destra, mentre un’espressione di estrema meraviglia gli si dipingeva sul volto aperto e sorridente.
«Dottò, che mi stai a dì? Controlla bene, che ti ho già pagato tutto il lavoro vecchio! Sono passato la settimana scorsa, e ho lasciato la busta con i soldi alla signorina. C’era anche un regalo di natale anche per le altre signorine!»
Una rapida indagine fu utile a stabilire che quel giorno, non essendo presente nessuno dei veterinari, Don Gennaro aveva lasciata una busta gonfia di banconote ad una delle addette alla toelettatura, la quale guarda caso, il giorno dopo si era sentita male e non era più andata al lavoro, guardandosi bene dal consegnare il malloppo.
Dopo un paio di giorni, constatata la mancata guarigione dell’ammalata e le altrettanto mancate risposte alle telefonate, una delegazione dello studio, composta da Alessandra e Marisa, si recò ad indagare sul mistero della busta e dell’operaia scomparse.
In molte zone del Sud, diversamente da quanto succede nel resto d’Italia e nel mondo, i quartieri più popolari sono quelli che si affacciano direttamente sul mare. I Borbone e i loro principi e marchesi avevano le ville con vista Capri e Ischia, mentre ora i benestanti preferiscono abitare in collina, lasciando le nere spiagge di vulcanico lapillo al popolino.
Tra il punto più alto sul bordo del cratere, e quello a livello del mare, nel comune di Torre del Greco l’escursione altimetrica supera di poco i mille metri, ma non potrebbe esistere una distanza più siderale tra le lussuose ville dei ricchi a mezza collina, e i tuguri dei derelitti che si accavallano dietro al porto. Proprio lì quel pomeriggio d’inverno, pochi giorni prima del Natale, si fermò slittando sui lastroni di basalto della pavimentazione stradale, il vecchio furgone azzurro della clinica veterinaria.
Dopo qualche esitazione dal mezzo spuntarono Alessandra e Marisa, con il viso coperto da sciarpe e cappelli per proteggersi dalle sferzate del maestrale che rendeva il mare una massa di schiuma bianca, e trasformava le strade del quartiere al disotto della ferrovia in un deserto di cartacce svolazzanti.
L’abitazione era a pianoterra, sulla strada: il cosiddetto basso, il più elementare ed economico tipo di abitazione dopo le grotte del neolitico. Il campanello era rotto, ma anche in caso contrario nessuna delle due donne, che non avevano paura di visitare una tigre, avrebbero avvicinato il dito a quel pulsante che una volta era stato rosso, ma ora era nero di grasso e sporcizia, e contornato da fili elettrici scoperti.
Alla terza scarica di pugni sul portoncino malandato, mentre dopo essersi guardate in faccia senza parlare, stavano per tornare verso il vecchio furgoncino azzurro, la porta si aprì per qualche centimetro, lasciando vedere la testa di una vecchia signora che un tempo doveva essere una bella donna, ma ora di quel ricordo conservava solo un minimo di orgoglio.
«Nun ci sta nisciuno, signurì… Nun ce serve niente!»
«Scusi signora, non vendiamo niente, siamo della clinica veterinaria, volevamo chiedere come sta Crist…»
«Siete venute per i soldi vero? Vi ha mandate il titolare, perché lui non ha il coraggio di scendere nei bassifondi?»
La ragazza che si era materializzata dietro alla nonna, era il fantasma della toelettatrice dagli occhi neri e dai corti capelli rossi che ora sì, si vedeva chiaramente era la nipote dell’anziana bellezza che aveva aperto la porta.
«Quei soldi non volevo rubarli ma mi servivano urgentemente e non ho potuto far altro che prenderli. Ho pensato che me li avevano mandati San Gennaro e Maria Immacolata. Ho intenzione di restituirli fino all’ultima lira, però non subito. Guardate qui!»
All’interno dell’unica stanza della casa, riscaldata da un minuscolo braciere a carbone, c’era una culla, dalla quale spuntavano le teste ricce di due neonati di un bellissimo color caffellatte.
«Madonna mia, l’Immacolata Concezione! – sbottò Marisa, meritandosi una potente gomitata nelle costole da parte di Alessandra – E questi chi sono?»
«Ai nomi non ci abbiamo ancora pensato, per il momento stiamo cercando di trovar loro da mangiare.» Rispose Cristina la giovane ladra.
«Sono i figli di quella disgraziata di mia sorella più piccola: si è messa con un poco di buono, africano o arabo non ho nemmeno capito. E’ venuta la settimana scorsa con i gemelli, li ha lasciati qui ed è sparita di nuovo.»
La ragazza si guardò intorno con occhi smarriti, come una cerbiatta presa nella tagliola di un bracconiere.
«I soldi mi servivano per comprare il latte e le altre cose per loro, però tra poco finiranno anche quelli e non so più cosa fare.»
«Potresti affidarti all’anima caritatevole di San Gennaro» mormorò Alessandra, e prendendo Marisa sotto braccio si avviò verso l’uscita, lasciando distrattamente cadere sul comodino alcune banconote ben ripiegate su sé stesse.
Invece di tornare all’ambulatorio, il furgoncino azzurro si diresse scoppiettando e beccheggiando lungo la strada litoranea che da Torre del Greco conduce verso Portici, alla lussuosa villa dell’ingegnere.
Il giorno dopo, era la vigilia di Natale e di buon’ora, don Gennaro era già in attesa nel parcheggio della clinica, con il primo toscano della giornata penzoloni dalle labbra.
«Dottò, mi devi scusare, sai la vecchiaia mi fa perdere un po’ la memoria, ho qui un pensiero per te.»
Tirò fuori una grossa busta di carta legata con un elastico, e con il suo solito sorriso ammiccante la consegnò nelle mani di un allibito dottor Gardenia.
«Questi te li manda l’Ingegnere, con tanti auguri di buon Natale… Salutami la signorina Cristina, e annunciale che oggi stesso la vado a trovare!»
Le visite di don Gennaro al povero basso dietro la spiaggia del porto proseguirono negli anni, mentre Cristina appena passato Natale tornò al lavoro che le piaceva così tanto, senza aver mai più bisogno di rubare.
I due piccoli color caffellatte ormai non più derelitti, vennero battezzati come Gennaro e Maria Immacolata, in braccio a due emozionatissime giovani veterinarie, e ora che sono passati più di vent’anni, girano tranquilli per le strade della cittadina vesuviana.
Lo sguardo fiero, e i loro libri universitari sotto braccio.

Pianta della cappella Reale

La Reggia di Portici è candidata ai Luoghi del Cuore del FAI, il Fondo Italiano per l’Ambiente.

Si può votare fino al 15 dicembre cliccando qui:
https://www.fondoambiente.it/luoghi/reggia-di-portici?ldc

Pubblicato da Lucio Sandon

Nato a Padova e trasferito a Napoli da ragazzo, Lucio Sandon lavora come veterinario. Ha pubblicato tre romanzi: Il Trentottesimo Elefante, La Macchina Anatomica, e Cuore di Ragno. Poi due raccolte di racconti con protagonisti cani, gatti, tigri, leoni e altri animali incontrati durante la quarantennale carriera: Animal Garden e Vesuvio Felix, e infine una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario Veterinario. La Macchina Anatomica – Graus editore, è risultato nel 2018 vincitore del premio letterario Talenti Vesuviani, e si è classificato al secondo posto del concorso letterario Albero Andronico, al terzo posto del premio letterario Montefiore di Cattolica, ed è stato selezionato tra i finalisti del premio Zeno di Salerno. Cuore di Ragno – Graus editore, è già stato premiato nel 2019 come vincitore sia del premio letterario Città di Grosseto “Amori sui generis” come inedito, che dei premi letterari Velletri Libris e Talenti Vesuviani, come opera edita. Cuore di Ragno verrà premiato al Campidoglio nell’ambito del concorso letterario internazionale Alberoandronico, mentre è risultato vincitore del Concorso letterario Città di Grottammare nella sezione Romanzo storico. E’ in uscita a firma di Lucio Sandon dopo l’estate, per i tipi di Jonglez Editore di Versailles, la guida turistica del Molise dal titolo “Il Molise Insolito e Segreto. Lucio Sandon collabora con il giornale online Lo SpeakersCorner, dove pubblica settimanalmente il racconto della domenica. Due di essi sono stati premiati: segnalazione di merito al Premio Iplac - Voci di Roma, e Premio Letterario Letizia Isaia, primo premio narrativa. http://www.lospeakerscorner.eu/lo-scrittore-lucio-sandon-e-i-suoi-racconti/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.