Il genio dell’abbandono è quello che ha soffiato sulla vita e le opere di Vincenzo Gemito, scultore napoletano vissuto tra l’otto e il novecento. Secondo un suo amico, se lui non fosse stato abbandonato, forse non sarebbe diventato il grande Vincenzo Gemito.
Nato n.n. e abbandonato, come tutti i figli della colpa, alla ruota dell’Annunziata, il brefotrofio napoletano, Vincenzo non ha genitori naturali, ma riceve alla nascita una forza del fato, che lo porterà alla creazione di opere straordinarie, che faranno di lui il più grande scultore italiano del tempo, ricercato da mercanti, appassionati d’arte e sovrani. Meschino per nascita, dunque, ma magnifico per natura.
All’atto dell’adozione, Vincenzo riceve per sbaglio questo cognome. Quello scelto per lui in realtà era Genito, come generato, ma per errore viene registrato come Gemito. Nomen omen verrebbe da dire e mai come in questo caso si sarebbe più vicini alla verità. La vita dello scultore è infatti vissuta all’insegna del dolore. Dolore per lo sforzo creativo, per il desiderio di catturare e infondere nella materia da plasmare lo spirito, l’assoluto, la bellezza che attraversa il tempo e si fa universale. Ma questa “rapina del vero”, per farsi arte, deve passare attraverso le difficoltà di un quotidiano infarcito di miseria, di una povertà che attanaglia e costringe. Difficile, infatti, coniugare la libertà dell’arte e la necessità di sfamare le tante bocche a suo carico, moglie, figlia, madre adottiva, patrigno. E difficile convivere con la malattia che lo consuma nell’anima e nel corpo, il mal francese, contratto a Parigi, dove Vincenzo si era recato per attingere a quel crogiuolo che è la capitale francese, tappa obbligata di ogni artista, e da cui tornerà, invece, malato.
Vincenzo cresce tra i vicoli di Napoli e le botteghe artigiane in cui cerca di imparare il mestiere. Non ha studiato, perciò per tutta la vita combatte anche con l’ignoranza e riesce ad affacciarsi solo attraverso le parole e gli insegnamenti di amici e maestri sull’orlo delle cose, la politica, la storia, l’arte antica. Vincenzo si sforzerà di capire il suo tempo, di afferrare il senso dello snodarsi delle vicende umane, ma sarà sempre troppo lontano dalle cose di tutti i giorni e costantemente teso all’astrazione.
Vivrà il manicomio in cui viene ricoverato a causa della sifilide, la fuga dallo stesso, la reclusione volontaria dentro la sua stanza di lavoro per circa venti anni alla ricerca ossessiva dell’opera perfetta, l’incontro con re, nobili ed intellettuali. Tutti i grandi nomi del suo tempo renderanno omaggio al suo genio, D’Annunzio, Scarfoglio, Serao, Morelli, Cangiano, Altamura, Boldini, la duchessa Elena D’Aosta, Vittorio Emanuele II, Ferdinando Russo, Viviani, Salvatore di Giacomo, Marinetti. Applaudito da tutti, dunque, ma povero sino quasi alla fine dei suoi giorni, quando finalmente arriverà a sollevarlo un po’ dagli affanni della materia la tanto agognata pensione di stato.
Libro bello e faticoso questo “Il genio dell’abbandono” a causa della scrittura densa e vischiosa della Marasco, fattasi qui ancor più complessa per lo sforzo di riprodurre fedelmente una voce che viene dal passato, che è infarcita di un dialetto antico e che riporta il flusso dei pensieri di un uomo malato di mente, costantemente in bilico tra realtà e fantasia, tra verità e percezione alterata della stessa.
Per chi ha voglia di saperne di più della vicenda umana ed artistica di un genio e di un’epoca d’oro per la città di Napoli.
Donatella Schisa
Titolo: Il genio dell’abbandono
Autore : Wanda Marasco
Editore : Neri Pozza
Collana : I narratori delle Tavole
Prezzo : € 17
Wanda Marasco è scrittrice, attrice, regista e insegnante napoletana.
Si laurea in Filosofia e si diploma a pieni voti in Regia all’Accademia d’Arte Drammatica «Silvio D’Amico» di Roma, sotto la direzione di Ruggero Jacobbi.
Per un certo periodo insegna Lettere all’Istituto Tecnico Industriale «Galileo Ferraris» nel difficile quartiere di Scampia.
Amica del poeta Dario Bellezza, la stessa Marasco è una poetessa: inizia a scrivere le prime raccolte giovanissima, tra i sedici e i vent’anni. Nel 1977 pubblica la raccolta Gli strumenti scordati, e due anni dopo L’attrito agli specchi. Nel 1978 le viene assegnato il Premio per la poesia «William Blake».
Negli anni seguenti pubblica ancora poesie con le raccolte Deus Inversus, Le fate e i detriti, Metacarne, fino a raggiungere il riconoscimento del Premio Internazionale Eugenio Montale nel 1997 con la raccolta Voc e Poè. Collabora inoltre con le riviste poetiche «Oltranza» e «Tracce». Wanda Marasco è anche scrittrice teatrale: durante il periodo romano infatti, compone una rivisitazione del Faust di Goethe e la commedia La strada dell’abbondanza.
Del 2003 è la sua prima raccolta di racconti L’arciere d’infanzia (Manni Editore, arricchito dall’introduzione di Giovanni Raboni), con la quale vince lo stesso anno il Premio Bagutta per la sezione Opera Prima. Tre anni dopo le viene conferito il Premio speciale alla carriera «Città di Pieve di Cento». Nello stesso periodo prende parte al lavoro antologico a più mani Da Napoli/Verso, un almanacco di poeti italiani contemporanei (in maggioranza numerica napoletani) edito dalle Edizioni Kairòs. Nel 2013 Wanda Marasco scrive la raccolta di poesie La fatica dello stormo, edito dal piccolo editore napoletano La vita felice, mentre nel 2015 esce per Neri Pozza il romanzo Il genio dell’abbandono, raffinata biografia dello scultore napoletano Vincenzo Gemito, e grazie alla quale entra fra i dodici semifinalisti del Premio Strega dello stesso anno.
La trama
Il genio dell’abbandono racconta la vita del più grande scultore italiano fra Otto e Novecento: Vincenzo Gemito. E lo fa mantenendosi in prodigioso equilibrio tra fedeltà al dato storico e radicale reinvenzione dello stesso. È il romanzo di un’avventura eversiva e donchisciottesca, libro di vertiginosa solitudine e di teatrale coralità sullo sfondo di una Napoli vissuta come «un paese imprecisato che stava diventando la sua frontiera di malato», a contatto coi protagonisti della cultura del tempo, da Salvatore Di Giacomo a Raffaele Viviani e agli altri.
Wanda Marasco prende le mosse dalla fuga dell’artista dalla clinica psichiatrica in cui è ricoverato, e da lì ricostruisce la storia agitata di un «enne-enne», un figlio di nessuno abbandonato sulla ruota dell’Annunziata, il grande brefotrofio del meridione. Il marchio del reietto – beffardamente impresso nel suo stesso nome che è il risultato di un errore di trascrizione – lo accompagnerà per sempre, quasi come un segno di divinazione. Il suo apprendistato lo farà nei vicoli, al fianco di un altro futuro grande artista, il pittore Antonio Mancini, suo inseparabile amico che diventerà anche coscienza di Gemito, suo complice totale e infine suo nemico o, meglio: quell’intimo nemico di se stessi che si preferisce trasferire nell’altro. Vedremo così «Vicienzo» entrare nelle botteghe in cerca di maestri, avido di imparare. Lo seguiremo a Parigi, tra stenti da bohème e sogni di celebrità, e lo ritroveremo a Napoli, artista ambito da mercanti e da re, e pur sempre incalzato da quel «genio dell’abbandono», che, potente metafora dell’orfanità dell’arte, lo spinge a grandi imprese e lo precipita nel baratro dei fallimenti. Vivremo il suo folle amore per la modella Mathilde Duffaud, che ne segna la vita come un sistema dell’erotismo e del dolore, un impasto di eccessi e delusioni che sfociano in una follia tutta «napoletana»: intelligenza alla berlina, incandescenza e passioni spesso arrese a un destino malato di cui il «vuoto» di Napoli voracemente si nutre.
Scritto in una lingua vigorosa e raffinatissima che con movimento naturale vira verso il registro dialettale, Il genio dell’abbandono è sostenuto, come ha scritto Cesare Segre, da uno slancio drammatico che conferisce ai personaggi «uno stacco e un dinamismo straordinari». Portatore di un dolore immedicabile e insieme di una furia sconfinata, «Vicienzo» s’imporrà al lettore con la forza dei personaggi indimenticabili, «pazzo in latitudine e longitudine» e «col carattere di una putenta frèva»: la febbre del genio che combatte la sua battaglia solitaria con la storia e la società per affermare identità e passione.