Il Pensiero Tibetano – Comprendere la via buddhista alla pace della mente di Dejanira Bada, Giunti Editore.
“Meditare non significa annullare il pensiero, così come non significa rilassarsi. Significa, invece, essere consapevoli di quello che avviene, di quello che c’è nel panorama mentale.”
Il pensiero Tibetano – Comprendere la via buddhista alla pace della mente
“Paradossalmente, non si può essere utili a se stessi senza esserlo agli altri. Che lo vogliamo o no, siamo tutti collegati, ed è inimmaginabile riuscire a conseguire la felicità soltanto per sé. Chi tenta di farlo finisce nella sofferenza.”
Dalai Lama
La vita. Un magico, meraviglioso e fantastico dono di cui ogni individuo è protagonista unico e indiscusso. Un irripetibile percorso costellato anche dal mistero, dalla scoperta di ciò che siamo e di ciò che siamo destinati ad essere, dalle gioie e dalle sofferenze, dalle perdite e dalle conquiste, dai successi e dai fallimenti, dalle vittorie e dalle sconfitte. Possibilmente, dalla consapevolezza che nonostante i molteplici intoppi e ostacoli, resta sempre e comunque il miracolo più bello che rende ciascuno di noi un personaggio indispensabile posto al centro di una trama spettacolare. Ma quanto spesso siamo capaci di soffermarci sulla grandiosità di questa immensa opera? Soprattutto noi occidentali, travolti dal vortice frenetico e caotico delle nostre esistenze, siamo in grado di rallentare il passo per ammirare un tramonto, o per guardare i colori meravigliosi di un fiore che sta per sbocciare, o per vedere la dolcezza autentica che traspare dagli occhi di un cucciolo di animale, o ancora per contemplare al contempo la maestosità e la tranquillità che il modo ondoso del mare riesce a regalarci? Di queste piccole ed enormi gioie sappiamo godere poco, purtroppo, proprio perché magari i ritmi serrati ai quali siamo sottoposti e dai quali ci lasciamo sopraffare, ce lo impediscono.
Eppure, esistono luoghi e persone con altri stili di vita e con una forma mentis diversa dalla nostra, che tendono a valorizzare anche gli aspetti apparentemente più insignificanti di tutto ciò che ci circonda e lo fanno attraverso pratiche di meditazione costante.
“Meditare non significa annullare il pensiero, così come non significa rilassarsi. Significa, invece, essere consapevoli di quello che avviene, di quello che c’è nel panorama mentale.”
“La vita va vissuta anche se è sofferenza, anche se è vacuità, anche se esiste la morte, per rispetto di noi stessi. La pratica meditativa, che permette di fare propri tali concetti, può aiutare a renderla un viaggio meraviglioso, di cui godere ogni giorno. Che dopo ci sia qualcosa, oppure no. Che esista un creatore, un senso oppure no.”
Ma cosa sappiamo noi occidentali del pensiero orientale? Quando, dove e da chi è partito?
“…Il Buddha nacque nel 566 a. C. circa. Non apparteneva alla casta sacerdotale, ma a quella guerriera che respingeva l’autorità dei Veda. Lasciò la sua casa per avventurarsi nel mondo in cerca di una soluzione alla sofferenza, e proprio in questo avventurarsi si avvicinò alla pratica dello yoga. Nato a Lumbinī, al confine tra India e Nepal, Siddhārtha Gautama era figlio di un uomo ricco e viveva nel lusso. Durante l’adolescenza si sposò, ebbe un figlio, ma dal momento che non riusciva a smettere di pensare che la vita fosse caducità e sofferenza, decise di abbandonare tutto per andare alla ricerca di immortalità e pace. Diventò discepolo di vari brāhmani, membri della casta sacerdotale, che lo iniziarono allo yoga. Ma, insoddisfatto dei loro insegnamenti, proseguì il cammino con cinque discepoli, continuando con lo yoga, gli esercizi per la respirazione, il digiuno e altre pratiche intensive. Dopo anni di questa vita si accorse di star soffrendo, e così riprese a mangiare. I discepoli ne rimasero delusi, perché interpretarono il cambiamento come un segnale di abbandono della ricerca. Siddhartha proseguì allora da solo. Arrivò a Goyā, in India. Si sedette sotto un albero, un ficus religiosa. E qui, come narra la leggenda, ebbe l’illuminazione e divenne un Risvegliato. Si recò poi a Sarnath, dove rivelò ai cinque discepoli finalmente ritrovati ciò che aveva appreso. Con il tempo il suo seguito crebbe e gli adepti, ormai decine, costruirono la comunità dei monaci mendicanti, alla quale in seguito si unirono anche i laici. Insegnò per circa quarant’anni, dal 531 al 486 a. C., in continuo pellegrinaggio, fino al giorno in cui entrò nel Nirvāna definitivo. Proprio perché il Buddha fu un essere così perfetto, saggio e illuminato, gli uomini iniziarono ad adorarlo, a farne un dio e a voler diffondere il buddismo in tutto l’Oriente al modo di una religione.”
Un concetto di vedere le cose e di vivere la vita, dunque, completamente differente da quello al quale siamo avvezzi noi. La nostra cultura tende a spingerci verso la materialità delle cose, non verso la sua reale essenza. E anche la religione, per noi occidentali prevalentemente quella cattolica, ha inciso e incide tanto. A partire dal concetto della sofferenza…
“…Noi occidentali ignoriamo, per esempio, che per gli indiani non esiste distinzione tra mente e corpo. (…) Una cosa è certa, però: sappiamo dell’esistenza della sofferenza, e vogliamo imparare a gestire le tragedie della vita senza farci travolgere. Gli occidentali più scettici vedono i meditanti come persone che vogliono scappare dalla realtà, ma è esattamente l’opposto: si medita per essere ancora più presenti e consapevoli di ciò che ci circonda, per scoprire che ogni momento è nuovo e diverso dal precedente, che non siamo gli stessi che eravamo anche soltanto un minuto fa. Se vogliamo stare meglio non possiamo pensare di trovare benessere e felicità negli oggetti materiali e nelle persone: così facendo, saremo sempre insoddisfatti. Dobbiamo puntare sulle nostre risorse interiori. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è già dentro di noi, dobbiamo solo diventarne amici, imparare a trattarci bene, senza auto-sabotarci, senza avercela con noi stessi. Dobbiamo perdonarci, amarci, essere gentili, e avere relazioni sane e non possessive. I rapporti umani riempiono le nostre vite, danno loro valore, ma non possono essere il centro della nostra felicità perché sono destinati a finire. Un matrimonio può non funzionare, un’amicizia cambiare, una persona cara morire. Tutto è passeggero e nulla dura per sempre. In questo senso, la vita è anche sofferenza. Se riusciamo ad accettare le cose per quelle che sono, a sentire e a stare anche con il dolore, se faremo pace con la realtà così com’è e accoglieremo anche la tristezza, l’angoscia e la disperazione, anziché provare a cacciarle via, potremo fare passi da gigante e migliorare il rapporto con noi stessi e con l’esistenza. Il cammino è lungo e pieno di ostacoli, i tibetani sono i primi a dirlo: difficilmente basterà una sola vita per portarlo a termine. Ma l’importante è cominciare…”
Lo stesso concetto di morte, quasi ripudiato e molto temuto dal nostro modus vivendi, assume aspetti e connotati completamente agli antipodi per i tibetani, che vivono questo evento con altre consapevolezze ed altre prospettive.
“In Tibet i defunti vengono portati in cima a una montagna dentro a un sacco bianco, scuoiati, fatti a pezzi e dati in pasto agli avvoltoi. È un rito che prende il nome di sepoltura celeste, jhator, una pratica che per molti occidentali è orripilante ma che per i tibetani, che non danno nessun valore a un corpo morto, è consuetudine. C’è da considerare anche che il territorio roccioso e spesso ghiacciato del Paese non offre la legna necessaria alle cremazioni e scavare le fosse è pressoché impossibile. Ogni bene del defunto viene poi regalato ai monasteri o bruciato insieme alle ossa avanzate dagli avvoltoi. Non si preserva nulla. (…) È il ciclo della vita. L’andare e venire nel mondo. In quei corpi non ci sono le persone amate, perché il loro flusso mentale è già altrove, in viaggio, in attesa di liberazione o di rinascita. Non c’è attaccamento, non c’è nulla. (…) Il fatto che i tibetani si preparino tutta la vita a questo momento può sembrare sconvolgente: siamo abituati a fare della morte il tabù per antonomasia. Come tutti gli argomenti che ci spaventano, preferiamo non parlarne, relegando il tema al campo dell’ignoto.”
Le tematiche dell’impermanenza, della vacuità, dell’inconsistenza, si ripetono a oltranza. E nella loro astrazione diventano estremamente concrete.
“Il mondo esiste soltanto come continuo susseguirsi d’istanti transitori che sorgono per via di svariate cause. Tutto è impermanenza, sofferenza, vacuità; non c’è nessun sé, io, mio. Perché quello che noi chiamiamo IO non ha natura propria, non ha sostanza, non è autosufficiente e non è permanente; non risiede in nessuna parte del corpo e della mente. Non è che non esista, ma come tutto il resto è inafferrabile, è solo un’etichetta che affibbiamo a un flusso in continuo mutamento.”
È stata questa una lettura che ho portato avanti con estrema attenzione e molto senso critico. A prescindere dalla cultura che abbiamo, dalla fede in cui crediamo, dagli insegnamenti e dalle abitudini che ci contraddistinguono, questo libro ci offre la possibilità di vedere le cose e noi stessi da altre, meravigliose prospettive.
“Che esista o no l’anima, che siano possibili la Resurrezione, il Paradiso, i Sei Regni, l’Assoluto, la cosa più difficile da fare è vivere con consapevolezza, arrivare alla fine dei giorni senza troppi rimpianti. Prendere la vita così com’è, lasciarla fluire, sapendo di non sapere proprio nulla. Vivere nel presente e illuminarsi guardando un fiore, perché in quel fiore c’è il cosmo, noi stessi, il tutto, la perfezione. (…) Abbiamo compreso che la sofferenza e il dolore spesso derivano proprio dal nostro modo di considerarle.”
Attraverso la testimonianza diretta dell’autrice, ho avuto la possibilità di fare uno strepitoso viaggio, seppur simbolico, in una cultura e uno stile di vita che da sempre mi affascinano e mi incuriosiscono. Una lettura intensa, costellata di ricordi vividi, di passioni e di emozioni intense e speciali. Un libro nel quale un po’ ci perde, ritrovandosi, magari diversi e più consapevoli, alla fine dell’ultima pagina.
Assolutamente consigliato!
“Di fatto, all’alba della sua ricerca di pace e di gioia l’uomo si è sempre affidato a qualcuno che potesse fargli da guida. Eppure ha sempre avuto dentro di sé gli strumenti necessari per proseguire in autonomia. I maestri, gli psicologi, i lama possono indicargli una strada per agevolare il suo percorso formativo, ma l’unico responsabile del suo apprendimento, l’unico vero maestro, è sé stesso.”
In Tibet shiné è la pratica del Calmo dimorare, nonché il nome di un famoso dipinto che raffigura un monaco nell’atto di inseguire un elefante nero, ovvero la sua mente. L’inseguimento consiste in nove stadi, che lo condurranno infine alla meditazione lhakthong, la pratica della visione profonda o analitica, che ha inizio con il decimo e undicesimo stadio e che gli consentirà di raggiungere l’illuminazione. Ci muoviamo nel testo seguendo tale sentiero. A piccoli passi sul tetto del mondo. Che cosa ci rimane del Tibet dopo il cammino? Di cosa possiamo fare tesoro? Oggi la meditazione sta entrando sempre di più nella vita di noi stressati occidentali. Ricordiamo però di portare sempre il dovuto rispetto: cerchiamo d’informarci e di non praticare solo per raggiungere obiettivi egoistici. Integrando la meditazione nella nostra quotidianità possiamo infatti ottenere benefici non solo per noi stessi, ma anche per gli altri e per il mondo.
Editore: Giunti
Collana: Varia Ispirazione
Copertina: Brossura con sovraccoperta
Pagine: 304
Dimensione: 140.0 x 215.0
Data di pubblicazione: 13/10/2021
ISBN: 9788809950030
Dejanira Bada
Grande esperta e appassionata di filosofie orientali e meditazione, insegna yoga e mindfulness. Ha diverse pubblicazioni di narrativa alle spalle ed è giornalista pubblicista.
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