Intervista a Nadia Terranova

 

Foto di Rino Bianchi

Sono qui oggi a Roma in un’accogliente bottiglieria del Pigneto per parlare con Nadia Terranova del suo ultimo libro e non solo.

Prima di iniziare a raccontare voglio riproporvi la recensione del suo libro oggetto della conversazione.

Addio fantasmi di Nadia Terranova.

Fuori è una di quelle splendide giornate autunnali in cui l’universo sembra straordinariamente in equilibrio e dentro l’atmosfera è raccolta e le luci soffuse. Dopo esserci accordate per un’intervista da fare a distanza, con domande e risposte scritte, abbiamo, infatti, deciso di comune accordo che era meglio farlo dal vivo, guardandoci negli occhi e scambiandoci opinioni in tempo reale e non differito. E così, dopo aver ordinato due cappuccini spruzzati di cannella, ci siamo sedute e abbiamo iniziato a parlare.

Ciao, Nadia, sono felice di averti qui. (sorrido)

Ciao (e sorride anche lei)

Innanzitutto volevo scusarmi con te in via preventiva perché quella che sto per farti è l’ennesima intervista dall’uscita del tuo ultimo libro “Questi fantasmi”, per cui sarà inevitabile scadere nel già detto.

C’è sempre qualcosa di nuovo che può venire fuori, anche perché le interviste non sono fatte con un muro ma con persone vive. Tu, in particolare, mi sembri molto viva (qui ridiamo insieme), quindi direi che verranno sicuramente fuori cose nuove. Io in genere cerco di non ripetermi, poi ovviamente alcune cose sono quelle, è inevitabile.

Inevitabile, certo.

Quello che volevo chiederti innanzitutto è questo: Se siamo qui è perché, evidentemente, abbiamo una passione in comune, l’amore per le parole, per cui raccontami com’è nata la tua passione per i libri, per la parola letta prima e quella scritta dopo.

Io sono stata una bambina molto solitaria, non perché fossi asociale, ma perché figlia unica di genitori molto giovani, abituata a stare con i grandi, senza fratelli e sorelle. Ho vissuto varie turbolenze familiari e presto sono rimasta sola con mia madre, perché i miei prima si sono separati e poi mio padre è morto.

Passavo perciò molto tempo da sola, lunghi pomeriggi dentro casa, anche se avevo amiche e amici.

Ricordo la noia sconfinata delle domeniche oziose senza il contatto con l’esterno e posso dire che i libri sono stati per me come internet, la mia fonte di contatto con il mondo. Io leggevo e moltiplicavo i pomeriggi e le vite che avevo a disposizione, andavo all’arrembaggio con i libri ovunque e non mi sentivo sola. I libri mi hanno fatto compagnia. Non leggevo perché pensavo fosse giusto, ma perché avevo bisogno di avere proprio quegli amici intorno.

Passione, dunque, possiamo definirla senz’altro tale. Possiamo anche dire che lo hai scoperto solo dopo, che all’inizio la lettura è stata per te fonte e strumento di sopravvivenza, trasformatosi poi in passione.

Si, è stato così.

Capisco perfettamente.

So che non si dovrebbe chiedere ad un autore se e quanta autobiografia ci sia nella sua scrittura, però è inevitabile rivolgerti una domanda dopo aver letto il tuo libro.

Ida, la protagonista, come te è una bambina che rimane sola e si trova a fare i conti col dolore in una stagione della vita in cui non si hanno gli strumenti per farlo e in un tempo che non è quello deputato a venirne a capo. Quanta parte di autobiografia c’è, dunque, in quello che scrivi?

No, guarda, io credo che andrebbe fatta questa domanda, invece. Poi sta a chi risponde decidere cosa dire e cosa non dire. L’autobiografia non può essere un tabù, anzi la domanda andrebbe fatta anche per i testi apparentemente molto lontani dal vissuto.

La maturità di uno scrittore, secondo me, sta nell’essere più autobiografico, non meno autobiografico.

Perché, quando si riesce veramente a toccare quel nocciolo di dolori che ci si porta dentro, ad andare a fondo, solo allora si riesce a comunicare con gli altri, a dare loro qualcosa in cui rispecchiarsi.

Per quello che mi riguarda, io saccheggio me stessa quando scrivo. Senza mai dire veramente io, uso degli alter ego, dei personaggi femminili che mi somigliano, ma che mi lasciano libertà di invenzione, come è accaduto con Mara ne Gli anni al contrario e Ida in Questi fantasmi. In loro c’è il mio senso di solitudine. Sai cosa succede realmente? Si prende l’abbrivio dalle vicende personali e poi si costruisce intorno a quelle.

Mio padre, per esempio, è morto, non è scomparso. Eppure, mentre scrivevo le prime pagine del mio ultimo libro, quella voce, che mi somigliava ma non ero io, stava vivendo il lutto come una scomparsa, perché non riusciva a dare pace a quel cadavere. E allora ho seguito quella voce.

Sono convinta che si riesce ad inventare meglio quando si è autobiografici. E’ lì per me che si spicca il volo con l’invenzione, quando si saccheggia l’interiorità profonda.

Lisa Ginzburg, che ho incontrato ieri per presentare Pura invenzione, il suo ultimo libro su Frankenstein e Mary Shelley, dialogando di letteratura, ha usato spesso la parola “trasfigurazione” per parlare della scrittura. La scrittura, secondo lei, non è né racconto, né invenzione, ma trasfigurazione e io sono assolutamente d’accordo.

Quindi trasfigurazione come uno dei sinonimi della scrittura. Bello.

Posso dirti, a riprova di ciò che hai appena detto, che la tua scrittura, che attinge a temi universali in grado di raggiungere chiunque, come il passato, la famiglia, il dolore, l’elaborazione del lutto, tocca sicuramente, e nel profondo, chi quello stesso dolore lo ha vissuto come te, creando immediatamente un processo di identificazione forte. E questo te lo dico da lettrice appassionata.

Un’altra domanda, Nadia: Il dolore per te va affrontato, fronteggiato, attraversato, non eluso? Perché altrimenti, torna e ti presenta il conto, è così?

Si, è così. Un’amica mi ha fatto un complimento una volta e mi ha detto: “Tu non ti sottrai mai, ti prendi sempre tutto in faccia”

Io sono rimasta lì per lì, poi ho capito che era vero. Se c’è una qualità che mi posso riconoscere è questa, io non mi sottraggo mai e lo faccio più nel dolore che nella felicità. Nella felicità sono più timida, rimango sulla difensiva, mi tiro indietro e spesso me la nego.

Vedi che sono venute fuori cose che non avevo mai detto? (e ridiamo insieme di nuovo)

E’ vero, allora stiamo attente a non dire troppo. (qui rido io)

E’ che, guardando negli occhi le persone, cambiano le cose che si dicono.

Un’altra domanda: Ida lascia la sua isola proprio come te. Quanta parte di Sicilia c’è in te, nella tua scrittura? Te lo chiedo da napoletana, perché sono convinta che tutti i luoghi di provenienza contengano un radicamento. Però ce ne sono alcuni che più di altri hanno un’identità così forte, è come se imprimessero una sorta di sigillo alle persone che vi sono nate e la Sicilia nell’immaginario collettivo, un po’ come Napoli, è fortemente così.

Ho la sensazione insomma che più ci si allontana, più quest’identità vada radicandosi. Come se ci si sentisse fortemente siciliani proprio quando si è lasciata la propria terra alle spalle. Così che la distanza si fa più viva presenza. E’ così?

E’ così. Assenza più acuta presenza anche nel rapporto geografico.

Io ho scoperto di essere siciliana proprio andando via. Non avrei mai detto di essere così tanto siciliana mentre ci vivevo. Mi sembrava una casualità, tu vivi in un posto e dai tutto per scontato. Non mi godevo le cose belle e neppure le brutte, guardavo solo quello che c’era oltre quell’orizzonte. Mi sono accorta di essere messinese…

Che è una condizione ulteriore rispetto all’essere semplicemente siciliana

Si, quando sono andata via, la Sicilia è apparsa nella mia scrittura magicamente. Tornavo sempre a scrivere di Sicilia e allora mi sono accorta di quanto fossi messinese.

Perché lo stretto è un’altra regione ancora rispetto alla Sicilia. E’ una regione che ha una sua particolarità, due terre di fronte, un pezzo di isola e uno di continente, c’è un mare limitato, ci sono due mari insieme.

Questa sensazione di cui parli io l’ho ritrovata esattamente così nel tuo libro. Anzi, ti dirò che mi sembra che Ida/Nadia riesca ad essere felice, a pacificarsi in qualche modo solo in una condizione sospesa tra passato e presente, solo in quel viaggio, quando si lascia la Sicilia alle spalle e ha il continente di fronte. Solo in quella terra di mezzo, mi sembra che Ida riesca finalmente ad essere felice, come una creatura sospesa tra passato e presente.

Certo, è proprio così. Ida rispecchia Nadia in questo, sono uguali.

Nel libro, tra le altre cose, c’è un ragionamento intorno alla parola casa, concetto per me problematico da sempre. Lo era prima, quando di casa ne avevo una sola, quella di Messina, perché era una casa abitata da un’assenza. Lo è stato poi con la casa di Roma, diversamente problematico, certo, perché l’avevo scelta, ma le case a quel punto erano diventate due. E allora ho riscelto di essere messinese con la scrittura e la scrittura è diventata la mia casa.

Perché casa possono essere molte cose; casa sono sicuramente le persone che ami, però può capitare a un certo punto che non le ami più o che queste se ne vanno, ti lasciano, muoiono. E allora casa è un concetto mobile, perciò la traversata, perciò lo stretto, perciò il viaggio. Solo in quella condizione di mobilità, solo in quel momento mi sento completamente a casa. Sai, per farlo quel viaggio perdo un’intera giornata, potrei prendere l’aereo, perdere meno tempo, ma, quando salgo sul traghetto e spengo il telefono, proprio come quando leggo, mi sento a casa. Molto di più di quando con le chiavi apro la porta di casa, che sia la vecchia, quella di Messina, o la nuova, quella di Roma.

In quel preciso momento io divento sola con quella sensazione lì. La chiave credo sia la mobilità. La casa come mobilità.

Quello che dici si coglie decisamente nelle pagine del tuo libro. Quel viaggio che racconti è per me un fotogramma forte, indimenticabile.

Nadia, tu credi in un qualche valore salvifico, terapeutico, risarcitorio della scrittura? Scrivere ti ha aiutato a superare degli snodi esistenziali?

Risposta complessa. La Nadia di un tempo ti avrebbe risposto di no, perché avrebbe collegato il senso della domanda a una modalità diaristica o psicoanalitica e l’avrebbe allontanata questa possibilità. Oggi che non ho bisogno di quello snobismo, posso dire serenamente che la scrittura mi ha aiutato.

Non nel momento in cui scrivo perché per me la scrittura è guerra. Io soffro, sto malissimo, mi devo allontanare. Quando scrivo una pagina dolorosa sto così male che mi rallento. Per un paio di mesi mi è capitato, mentre scrivevo Questi fantasmi, di non voler riaprire dei file, di non volerli rileggere, di doverli allontanare. Poi avviene qualcosa di incredibilmente risarcitorio quando il libro comincia ad andare tra la gente. Ti accorgi che proprio quei passaggi così dolorosi, che ti sono costati tanto, le persone li hanno sottolineati. E questo permette un legame.

E’ perciò che, quando tu mi hai scritto e mi hai detto che un’intervista a distanza non sarebbe stata la stessa cosa, perché sarebbe mancata la possibilità di interloquire, di dialogare sul serio, io ti  ho detto “Vediamoci”

E ti ringrazio di essere qui, di essere venuta apposta, perché al posto di quelle domande scritte si è creato un ponte tra noi, non possiamo dire di amicizia, non lo sappiamo, è presto, forse non lo sarà mai, ma ci siamo trovate e questo è incredibilmente risarcitorio per una persona come me, che è abituata a stare da sola.

Per un momento, in mezzo a quello stretto io e te ci siamo incontrate.

Si, è così, lo confermo, ci siamo incontrate grazie al tuo libro. Su quel ponte.

Per cui per me forse leggere è terapeutico più che scrivere

Quest’estate, per esempio, ho letto un libro bellissimo, L’estate del 78 di Roberto Alaimo, in cui lui racconta della morte della madre quando era molto giovane. Un libro che mi ha stravolto, ma anche curato. E così Il diavolo in corpo, letto a vent’anni, anche quello mi devastò, ma mi diede però sollievo. Se qualcuno le racconta certe cose, vuol dire che non sono inconfessabili.

Quando leggi Lolita, per esempio, non c’è approvazione morale, ma hai la sensazione che la morale possa restare fuori, che tu possa totalmente abitare un mondo assurdo, fatto di pulsioni inconfessabili, un mondo feroce, fatto dei pensieri peggiori. Ecco, quello è terapeutico per me.

Quindi la lettura più che la scrittura ha per te valore terapeutico, o, almeno, l’ha avuto prima.

Si, è così.

Come vedi il panorama letterario italiano in un momento in cui sembra che tutti scrivano e nessuno legga?

I libri si vendono sempre meno, anche i più commerciali.

20 anni fa in classifica c’erano testi molto letterari, poi sono venuti i cuochi, le barzellette, ora è imprevedibile dire cosa venderà.

Perché, a parte i giallisti, alcuni anche di grande qualità, e qualche solito grande nome, i libri stentano ad affermarsi.

i libri letterari, quelli belli, dovrebbero camminare da soli, ma non è così. Forse si potrebbe dire che non è il destino della letteratura, che i libri validi fanno fatica ad emergere, ma non è sempre così. Se pensi a casi come La storia, Lolita, Lessico familiare, questi sono stati libri vendutissimi. Ma per lo più non funziona in questo modo. Ogni tanto poi avvengono dei miracoli, piccoli editori coraggiosi che investono. Per esempio con La vergogna di Annie Ernaux di nuovo in classifica L’Orma ha fatto questo miracolo di ripescare un libro vecchio di una scrittrice molto letteraria, di rivolgersi ai lettori veri.

Perché la mia sensazione è che oggi gli editori inseguano il mercato più che proporre, lasciando all’asciutto i lettori veri che vogliono solo letteratura. Noi entriamo in libreria (qui muove le mani come chi fatica a farsi strada) e dobbiamo fare: questo no, questo no, questo no, aggirarci a lungo a vuoto per arrivare agli scaffali in cui finalmente troviamo qualcosa di interessante.

Molti gialli, vero?

Si, sicuramente molti gialli. Alcuni anche molto belli, anche se io non sono una lettrice di gialli. Però per esempio quest’estate ho letto Sabbia nera di Cristina Cassar Scalia e mi è piaciuto. Non solo gialli, però.

Progetti per il futuro? Stai lavorando a qualcosa, anche con tempi lunghi, naturalmente?

Si, uscirà un libro per ragazzi per Bompiani a marzo.

Il tuo passato, che torna, insomma.

Si, il mio passato, ma anche il mio futuro, perchè ci sarà sempre qualcosa per i ragazzi. Questo libro avrà le illustrazioni di Vanna Vinci, che è molto brava. Poi uscirà ancora qualcosa per ragazzi e poi c’è un’idea per un romanzo.

Non ho cominciato a scrivere, ci sto pensando. Avrà tempi lunghi. E’ in gestazione.

Certo, perché anche quando sembra che lo scrittore stia perdendo tempo, in realtà non è così. Si guarda intorno in cerca di spunti, elabora.

Si, la storia gli sta montando dentro. Io non prendo appunti in questa fase, scrivo e riscrivo la storia mentalmente centinaia di volte. Passano anche sei mesi, un anno prima di cominciare a scrivere.

Nadia è stato un piacere incontrarti, addirittura maggiore di quello che avevo pregustato.

Grazie, anche per me è stato così e sono davvero contenta che tu sia venuta qui e che l’intervista l’abbiamo fatta dal vivo e non a distanza.

 

A microfono spento confermo tutte le idee che di Nadia Terranova mi ero fatta leggendo il suo libro. E non è sempre così. Nadia è una grande autrice e una bella persona. Ha il dono, tra l’altro, di una rara generosità, cosa quasi impossibile da trovare in questo ambiente. Solo nell’arco di quest’intervista ha citato, per esempio, più di un autore, e non tra i soliti noti. Perché, come spesso, ripete, prima che una scrittrice lei è stata e rimarrà sempre una lettrice.

Donatella Schisa

Pubblicato da Donatella Schisa

Donatella è nata e vive a Napoli. Dopo gli studi classici, si laurea in Giurisprudenza coltivando parallelamente la sua passione per la scrittura. E' autrice di numerosi racconti pubblicati in diverse antologie; e si è classificata seconda alla XXV edizione del Premio Nazionale Megarls per la narrativa. il suo primo romanzo è " Il posto giusto"

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