Uno dei più illustri dizionari italiani definisce serial killer un “Pluriomicida che agisce sempre con le stesse modalità, compiendo crimini spinto da pulsioni psicopatologiche.”
Non solo: la storia ci insegna che gli assassini seriali sono sempre esistiti, e addirittura se ne possono trovare riscontri anche prima della nascita di Cristo. Solitamente, questa tipologia di crimini, soprattutto nell’antichità, è diventata una sorta di base per leggende e storie dell’orrore che riportavano in auge prevalentemente creature del soprannaturale. Ma avevano sempre una motivazione verosimile: in chiunque ci circondi potrebbe nascondersi potenzialmente un mostro.
Oggi ci soffermiamo su un personaggio in particolare, certamente non per convogliare ulteriormente attenzioni su di lui o sui suoi crimini aberranti, quanto piuttosto per celebrare la memoria delle sue vittime innocenti e prive di qualsiasi colpa.
L’omicida seriale oggetto della nostra attenzione si chiama Jeffrey Dahmer, riaffacciatosi alla ribalta della cronaca grazie anche a una serie televisiva di Netflix a lui dedicata.
Ma andiamo per gradi: Jeffrey emette il suo primo vagito il 21 maggio 1960. La madre Joyce assume una gran quantità di tranquillanti anche durante il periodo di gestazione ma, nonostante il matrimonio non fosse affatto felice, lo stesso Dahmer dirà di non aver mai subito violenze, maltrattamenti o abusi sessuali. Solo una cosa riferirà come per lui deleteria: il costante attrito tra i suoi genitori. Da ragazzino gli piace raccogliere carcasse di animali morti per strada, per poi sezionarli e studiarne gli organi interni. Durante la fase della pubertà, si rende conto di essere omosessuale ma, vivendo in una famiglia tendenzialmente religiosa, che non avrebbe mai accettato le sue inclinazioni, è costretto a reprimere i suoi impulsi. Ciò contribuisce a isolarlo dalla società: non ha amici, non ha confidenti, e trova conforto solo nell’alcol. I genitori, consapevoli ormai a non poter più tollerare un’unione insostenibile, decidono di separarsi nel 1978, anno in cui Jeffrey si diploma e compie diciotto anni. Di questo specifico momento in un’intervista dirà:
“Avevano i loro problemi, non potevo fare niente per cambiare la situazione, così cercai di trovare la felicità a modo mio. Che era ovviamente il modo sbagliato.”
Gli eventi si susseguono: la madre caccia di casa il marito che va a vivere in un motel e, senza dire nulla, anche lei presto si allontana portandosi via solo il figlio più piccolo, lasciando così il primogenito solo, depresso e confuso. Sarà questo un ambiente fertile in cui le fantasie deviate del giovane cominceranno a manifestarsi in modo sempre più intenso e compulsivo. E un incontro fortuito ma per Jeff propizio, gli aprirà una serie di danze macabre e mostruose. Proprio lui confesserà:
“A casa non c’era nessuno. Ho visto un’autostoppista e ho pensato che sarebbe stato bello avere qualcuno con cui parlare. Qualcuno con cui poter fare sesso. Quello che mi attirava era il fisico muscoloso.”
Una fantasia si stava realizzando…si ferma e lo invita a casa sua a fumare e a bere. Il ragazzo, Steven Mark Hicks, accetta, ma dopo un po’ comincia a manifestare una sorta di intolleranza. Vuole andare via, vuole raggiungere gli amici che lo aspettano al concerto, ma Jeffrey non vuole…
“Era la prima volta e io avevo un desiderio di controllo. Non sentivo più niente. Quindi immaginavo di aver deciso di farlo, che lui fosse gay o meno. Non importava davvero.”
La rabbia monta e Dahmer non la controlla: prende un manubrio da un set di pesi e colpisce Steven alla testa. Poi lo strangola. Dal colloquio che avrà con il suo avvocato difensore dopo l’arresto, emergerà una verità agghiacciante, che qui riporto.
Dahmer: “Non so perché l’ho colpito, solo che volevo stare con lui più a lungo. Pensavo a quanto fosse fantastico che lo stessi facendo davvero a un altro essere umano. Ero sconvolto di essere arrivato a quel punto. Era una sensazione di eccitazione e controllo, ma mista a molta paura.”
Avvocato: “Cos’hai fatto del corpo?”
D.: “Niente. L’ho messo proprio sotto la casa, nel vespaio.”
A.: “Andavi a guardarlo?”
D.: “L’ho fatto una volta. Ma l’ho guardato e basta.”
A.: “Cosa ti passava per la testa mentre eri lì a guardarlo?”
D.: “Una sorta di curiosità morbosa su che aspetto avesse una persona morta, curiosità mista a molta paura (…). Ho iniziato a smembrarlo tutto. È quello che ricordo di lui. Gli ho tagliato le gambe, poi le braccia e la testa.”
A.: “L’hai toccato ancora?”
D.: “Probabilmente si. Il fegato e il cuore.”
A.: “Ti sei preoccupato del perché provavi tanta soddisfazione, all’epoca in cui avevi diciotto anni, a usarlo per masturbarti?”
D.: “Non credo di sapere neanche ora perché provassi una sensazione eccitante, ma era così.”
A.: “Come si manifestava il turbamento? Cosa provavi?”
D.: “Molto senso di colpa. Indecisione se dovevo confessare. Non ho mai avuto il coraggio di farlo.”
A.: “Cosa pensavi?”
D.: “Beh, sapevo quanto fosse mostruosamente sbagliato. Non volevo che accadesse mai più una cosa del genere (…). È difficile riesumare sentimenti e motivazioni (…). Parlarne e analizzarlo, mi mostra come era distorto il mio modo di pensare.”
A.: “Hai mai provato a sviluppare una relazione?”
D.: “No, non posso dire di sì.”
A.: “Perché no?”
D.: “Beh, per via della situazione familiare. Non potevo portare avanti una relazione a lungo termine dove vivevo (…). Ho fatto uno sforzo sincero per cambiare i miei desideri. Per sbarazzarmi delle mie pulsioni omosessuali e di qualsiasi pensiero simile. Ho iniziato ad andare in chiesa con la nonna regolarmente. Ho cercato di reprimere qualsiasi pulsione sessuale. Mia nonna andava in chiesa ogni domenica.”
A.: “Di che professione è?”
D.: “Protestante (…). Stavo passeggiando per un centro commerciale e ho visto un manichino che ha attirato la mia attenzione. Volevo quel manichino, quindi sono entrato nel negozio. Non c’era nessuno. Sono rimasto fino all’orario di chiusura.”
A.: “Non è scattato l’allarme?”
D.: “No, nulla. Ho spogliato il manichino, sono tornato a casa in taxi e l’ho messo in garage, a casa della nonna. Poi ci ho giocato un po’, vestendolo e svestendolo, fingendo che fosse vero. Dopo una settimana o due la nonna lo ha trovato per caso. Stava appendendo i vestiti che aveva lavato per me. Mi ha chiesto cos’era, dove l’avevo preso. Le ho raccontato che l’avevo preso da quelli che vendevano manichini avanzati. Credo che abbia chiamato papà, così, ho pensato di liberarmene. L’ho portato nel seminterrato, l’ho distrutto e buttato nella spazzatura.”
Trascorrono nove anni dal primo omicidio, quando la sua mano colpisce ancora. Periodo questo, in cui comunque ha avuto a che fare con la giustizia: denuncia per abuso sessuale e violenza a danni di uomini precedentemente da lui stesso drogati in alcuni stabilimenti balneari gay. Poi, un giorno, mentre si trova in una biblioteca, qualcuno gli fa recapitare un bigliettino con un messaggio a sfondo omosessuale. In quel momento scatta la molla, stavolta inarrestabile…È il settembre 1987 quando Dahmer uccide Steven Tuomi, venticinque anni. Si incontrano in un bar e Jeffrey convince il malcapitato a seguirlo in albergo, all’Ambassador. Lo droga con l’intento di violentarlo, ma il mattino successivo si sveglia con il cadavere del giovane accanto. Dahmer ha sempre sostenuto che non avrebbe voluto ucciderlo ma, evidentemente, l’impulso latente e bestiale è stato più forte.
A ottobre dello stesso anno Jeff irretisce il quattordicenne James Doxtator promettendogli cinquanta dollari in cambio di qualche foto. L’omicidio si consuma a casa della nonna. Nel marzo 1988 è la volta del ventiduenne Richard Guerrero, e nel marzo dell’anno successivo tocca al ventiquattrenne Anthony Sears. Di lui conserverà la testa e i genitali. Tra questi ultimi due omicidi, Dahmer viene arrestato per aggressione sessuale ai danni di un ragazzo di tredici anni, per cui sconta otto mesi in un campo di lavoro. Anche da questo si evince quanto la società dell’epoca fosse razzista e omofoba e quanto la polizia fosse stata poco efficiente.
Seguono Raymond Smith di trentadue anni, nel maggio 1990; Edward Smith di ventisette anni nel giugno 1990, i cui resti non sono stati mai trovati; Ernest Miller di ventidue anni nel settembre 1990; David Courtney Thomas sempre ventiduenne e sempre nello stesso mese; Curtis Staughter, diciassette anni, nel febbraio 1991; Errol Lindsey, diciannove anni, nell’aprile 1991 (questo ragazzo ha rappresentato per Jeffrey il primo tentativo di creare una sorta di zombie umano: ha provato a trapanargli il cranio praticando una rozza lobotomia versando nel cervello acido cloridrico, sperando di far cadere la vittima in uno stato permanente di sottomissione totale); nel maggio 1991 cade nella rete diabolica Tony Hughes, sordomuto. Di lui dirà:
“Il tizio sordomuto, volevo tenerlo con me, così gli ho dato da bere con le pillole. Si è addormentato. Volevo vedere se riuscivo a pensare a un modo per tenerlo con me, senza ucciderlo davvero. Allora, a casa avevo un trapano e, so che suonerà male, ma dovrei dirlo. Ho preso il trapano mentre dormiva e gli ho fatto un buco nel cranio, per vedere se riuscivo a fare in modo che lui diventasse una specie di zombie.”
Un altro caso inquietante avviene sempre a maggio del 1991: circuisce Konerak Sinthasomphone, quattordici anni e fratello minore del ragazzo aggredito da Jeffrey nel 1988. Di lui il pluriomicida parlerà con l’avvocato:
Dahmer: “Con alcuni ho tentato la tecnica della perforazione. L’ho fatto anche con lui. Prima che arrivassero gli agenti.”
Avvocato: “Quanto sei penetrato con il trapano?”
D.: “Fino al cervello.”
A.: “Cinque o sette centimetri?”
D.: “Si.”
A.: “Sei andato fino in fondo?”
D.: “Esatto.”
A.: “Non è uscito niente? Nessun tipo di fluido?”
D.: “Niente che potessi vedere. E non sanguinava. Era un po intontito. Non era morto e parlava. Pensavo di riuscire a tenerlo così.”
Ma il giovane, nonostante lo stato in cui è stato ridotto, riesce a scendere dall’appartamento del suo carnefice, mentre quest’ultimo è uscito a comprare birre. Due persone dello stabile lo notano e chiamano i soccorsi. Arrivano gli agenti che provano a fargli delle domande, ma il ragazzo non è in grado di rispondere. Intanto sopraggiunge Dahmer, e con estrema calma dice ai poliziotti che quello è il suo ragazzo, che è maggiorenne e che ha alzato un po’ il gomito. La polizia li scorta nell’appartamento di Jeffrey, che mostra loro una foto che ritrae Konerak. Gli agenti gli credono e, senza fare ulteriori approfondimenti e senza accorgersi di un altro cadavere presente nella camera da letto, se ne vanno lasciando l’aguzzino libero di poter continuare la sua opera indisturbato. Ancora una volta le forze dell’ordine dimostrano una scarsa diligenza.
La quattordicesima vittima è Matthew Turner, ventenne, uccisa nel giugno 1991. Suo risulterà essere il busto che la polizia recupera nel tamburo da 57 galloni pieno di acido. Seguiranno Jeremiah Weinberger, ventitré anni, a luglio 1991; Oliver Lacy, ventiquattro anni, a luglio 1991; Joseph Bradehoft, venticinque anni, a luglio 1991.
L’epilogo per Jeffrey Dahmer finalmente arriva il 22 luglio 1991, quando adesca il trentaduenne Tracy Edwards con il solito modus operandi: soldi in cambio di foto da fare rigorosamente nel suo appartamento. Ma le intenzioni si rivelano subito chiare: Jeff ammanetta Tracy e lo minaccia con un coltello. La fortuna stavolta, assiste il malcapitato e in un attimo di distrazione, riesce a colpire l’aguzzino e a scappare dalla casa degli orrori. Incontra una pattuglia di polizia che lo scorta in quell’appartamento
da cui emerge ciò che praticamente può essere attribuito al senso concreto e devastante del “male”: teste mozzate, numerosi teschi, diverse parti del corpo umano conservate nel frigo e un grosso barile industriale dal quale fuoriesce un odore nauseabondo, contenente tre torsi umani smembrati che si sarebbero dissolti in una soluzione acida. Rispetto a ciò che avevano trovato il medico legale incaricato dice:
“Era più come smantellare il museo di qualcuno che una vera scena del crimine.”
Gli avvocati difensori hanno poco da fare, se non chiedere l’infermità mentale che non gli viene riconosciuta. A tal proposito, un altro serial killer, tale John Wayne Gacy, commenta:
“Non conosco quell’uomo personalmente, ma questo è un buon esempio del motivo per cui la follia non appartiene all’aula di tribunale. Perché se Jeffrey Dahmer non soddisfa i requisiti per la pazzia, allora odierei da morire imbattermi in quello che li soddisfa.”
Il giudice irrora la pena più severa possibile in uno stato, il Wisconsin, dove non è prevista la pena capitale. Jeffrey Dahmer è condannato a scontare quindici ergastoli.
Dopo la sentenza, il reo legge alcune considerazioni personali al giudice:
“Questo per me non è il momento di liberarmi. Sinceramente desideravo la morte. Non odiavo nessuno. Sapevo di essere malvagio, malato o entrambi. Ora credo di essere malato. Mi prendo ogni colpa di ciò che ho fatto. Ho fatto del male a molti. Ho ferito mia madre, mio padre e la mia matrigna. Voglio tanto bene a tutti loro. Spero che trovino la stessa pace che sto cercando io.”
Jeff, in carcere, si dedica alla lettura della Bibbia, fino a decidere di farsi battezzare. Il giorno del suo battesimo coincide con quello dell’esecuzione di John Wayne Gacy e con un’eclissi totale di sole: ci si intravede addirittura un significato mistico in tutto ciò. Dopo un anno passato in isolamento, si sente pronto ad affrontare gli altri detenuti, anche se il rischio per lui è alto. Infatti, il 28 novembre 1994, Christopher Scarver, un altro ergastolano, picchia a morte Dahmer con una sbarra di metallo nel bagno della prigione. Quest’ultimo, dirà poi che durante quell’aggressione Jeff non emise un solo suono, accettando quasi serenamente il suo destino.
Dahmer confessa 17 omicidi in tutto, dichiarandosi colpevole. Le sue confessioni sono agghiaccianti e molti contenuti sono emersi solo recentemente. All’interno del suo appartamento sono stati ritrovati diversi album fotografici che contengono, in modo ordinato, vari scatti che ritraggono le vittime prima, durante e dopo la dissezione. Le vittime sono state immortalate in varie pose, per metterne in risalto il fisico (elemento, questo, che lo attrae fortemente). Arriva a berne il sangue, credendo così di stabilire un legame indissolubile con le persone che ha ucciso e ne consuma le carni, pensando che le anime delle vittime possano continuare a vivere attraverso di lui. Aprendone il corpo, fa sesso con gli organi interni dei poveri malcapitati. Il suo terrore è l’abbandono, la sua estasi il controllo assoluto. Non sempre ricorda i nomi delle sue vittime, ma rammenta ogni singolo dettaglio inerente all’omicidio.
Riporto un altro scambio avvenuto con il suo avvocato:
Avvocato: “Jeff, dimmi cosa pensavi.”
Dahmer: “Mi ero chiesto perché mi sentivo spinto a compiere tutti questi omicidi. Cosa stavo cercando che riempisse il vuoto che sentivo. Uccidere qualcuno e sbarazzarmene subito non dà un piacere forte e duraturo o una sensazione di appagamento. Eppure, ho sentito l’impulso a farlo, in tutti questi anni. Non mi sembra di avere i normali sentimenti di empatia.”
A.: “Hai mai pensato consapevolmente: perché non ho i sentimenti delle persone normali?”
D.: “Me lo sono chiesto. È iniziato con le fantasie, fantasticando. Iniziava sempre fantasticando e poi alla fine sembrava che le fantasie si realizzassero (…). Se c’è un’area da incolpare, è il mio modo di pensare contorto. Sono anni che non penso normalmente.”
E ancora:
Dahmer: “Mi sembrava uno spreco distruggere qualcosa di così bello, ma all’epoca non avevo scelta. Era morto e dovevo trovare un modo per liberarmi dei suoi resti. Un giorno o due dopo, sono uscito e ho comprato un grosso pentolone da trecento litri, da un fornitore per ristoranti.
Avvocato: “È per quello che avevi un barile? Per metterci l’acido per le ossa?”
D.: “Si, era un secchio della spazzatura.”
A.: “Quindi ci mettevi dentro le ossa e poi…”
D.: “Diventava una poltiglia che si poteva versare e scaricare nel gabinetto.”
A.: “Cos’hai fatto col teschio?”
D.: “L’ho tenuto.”
A.: “Dove?”
D.: “Nell’armadio.”
Le vittime sono state perlopiù uomini neri gay e poveri, sprovvisti di una rete di sostegno sociale. Una minoranza, che in un particolare contesto storico e culturale si è vista deupaperata degli elementari diritti civili, spettanti a qualsiasi essere umano, a favore di un ragazzo bianco, che all’apparenza sembrava a modo, riservato, educato e solitario, ma che celava, dietro quella imperscrutabile maschera, una diabolica, lucida follia. Come confermerà lo stesso Jeffrey, a niente sono valse le proteste e le segnalazioni degli stessi vicini…
Dahmer: “Sono quasi finito nei guai perché a quanto pare, l’odore ha allertato i vicini.”
Avvocato: “Sono mai venuti a farti domande?”
D.: “Si, sono venuti.”
A.: “Cos’è successo?”
D.: “Ho detto che il freezer era rotto.”
A.: “Sceglievi quello che decidevi di tenere? Come lo sceglievi?
D.: “Solo le parti più carnose. Le parti con meno grasso.”
A.: “I bicipiti, le cosce, i polpacci?”
D.: “Esatto.”
A.: “Quindi hai estratto il cuore e il fegato e hai conservato quelli e la coscia. Cos’hai fatto con il resto?”
D.: “Ho tenuto circa ventitré chili, il resto l’ho buttato.”
A.: “Quanti chili pensi di aver mangiato?”
D.: “In totale, circa cinque.”
Tutti coloro che seguono il caso, giornalisti, reporter, legali, psicologi e psichiatri forensi, sostengono che Dahmer è un assassino atipico, in quanto non prova a difendersi, non inventa storie per giustificarsi, non è reticente e non mente, anzi, è piuttosto collaborativo e sembra voglia liberarsi in primis di quegli orribili crimini.
Avvocato: “Cosa ti ha spinto a volerli uccidere?”
Dahmer: “La spinta alla base era ovviamente un desiderio sessuale distorto. Una costante sensazione di vuoto e il fatto di non riuscire a trovare niente nella vita che mi desse un senso di felicità, pace o soddisfazione. Cercavo sempre qualcosa di più.”
A.: “Ti eccitava?”
D.: “Si. Vedere l’interno.”
A.: “Hai fatto sesso prima della loro morte?”
D.: “Prima e dopo.”
Cosa spinge un essere umano a usare una così barbara violenza nei confronti dei suoi simili? Si nasce votati al male, o c’è qualche evento scatenante che determina le azioni in questo senso abominevole?
Le tesi, in questo senso, sono tante. Ma noi oggi siamo qui per ricordare quelle vittime innocenti, che per un caso infausto hanno incrociato lungo il percorso della loro esistenza un uomo fortemente deviato, privo di scrupoli, di sentimenti, di umanità. Un demone fatto persona, che ha spezzato la vita e con essa i sogni, le ambizioni, i desideri, il futuro tutto di diciassette uomini incolpevoli. Come sarebbe stata la loro vita oggi? Sarebbero stati felici?
Non lo sapremo mai…
Fabiana Manna