Quando le narrazioni della violenza diventano mine vaganti.
Qualche giorno fa ho visto il film “La paranza dei bambini”, premiato al Festival di Berlino. La pellicola è tratta dal romanzo omonimo di Roberto Saviano, autore, fra l’altro, del famosissimo “Gomorra” che ha ispirato la seguitissima serie.
E’ la storia di una generazione di adolescenti di Forcella, un quartiere di Napoli tristemente noto per le vicende di camorra, che vive così radicato nella convinzione che non possa esservi altro modo di esistere oltre quello drammaticamente vigente in esso, da entrare a farvi parte come soggetti attivi e dinamici.
Proprio così, adolescenti che si improvvisano camorristi con armi e comportamenti da adulti. Ma a differenza dei bambini-soldato in Africa, costretti a imbracciare le armi, i ragazzini di Forcella intraprendono volontariamente quella strada, sostituendosi con la forza ai camorristi uscenti di turno, per assumerne alla fine gli stessi obiettivi e le stesse modalità operative.
Nicola, il protagonista principale, è egli stesso poco più di un bambino: assiste alle prevaricazioni che la madre, titolare di una piccola lavanderia, deve subire e decide di reagire. Ma la sua reazione consiste nell’adeguarsi al sistema, utilizzando appropriate modalità con le quale si possono ottenere dei veri risultati: violenza per ottenere sudditanza.
Traffico di droga, tangenti, prevaricazioni diventano il modus operandi di una banda di ragazzetti che osa sfidare i boss del quartiere con quell’incoscienza tipica della giovane età, indirizzando poi i propri desiderata verso gli stessi di qualsiasi altro adolescente come abiti di marca, motorini sempre più potenti e regali ai genitori.
Un film di notevole impatto emozionale, con la regia di Claudio Giovannesi, già noto per il suo sguardo partecipativo ma privo di commiserazione, alla fine del quale ci sia alza in piedi e si va via dalla sala di proiezione con la testa bassa e il magone dentro; soprattutto perché chi, come me, è nato e vive a Napoli, sa che non si tratta di un’opera di fantasia, né parzialmente romanzata, ma piuttosto di una crudele realtà di disperazione.
Particolarmente agghiacciante è la scena che si svolge nella discoteca durante la quale viene ripresa la pista da ballo, divisa in settori, come i serragli dello zoo: ogni quartiere di Napoli ha un suo spazio apposito dove i suoi giovani ballano, senza travalicare negli spazi dell’altro quartiere. I quartieri sono Forcella, Sanità, Scampia e le altre zone dove la camorra ha i suoi presidi e le sue attività. Come se Napoli fosse solo e esclusivamente quello, un coacervo di quartieri delinquenziali.
E se poi qualche giorno dopo, in Piazza Nazionale, nella stessa città di cui si parla nel film, una bambina viene ferita gravemente da un ragazzo di ventotto anni, durante un agguato nel quale la piccola, indirettamente, si è trovata coinvolta, l’amarezza aumenta e alcune domande ci vengono inevitabilmente in mente.
Fino a che punto un film, o un libro possono incidere sul comportamento delle persone, in positivo o in negativo? E ancora: chi non conosce ormai cosa accade nella città di Napoli e quale sia il vero mostro che la tiene in pugno, nonostante lo sforzo davvero immane, di tante persone che cercano di fare la differenza?
Non ho niente contro i film o i libri che trattano di malavita, ovviamente, ma questo martellamento mediatico non so quanto possa essere utile, in un momento nel quale i media hanno assunto una funzione quasi pedagogica, orientando il comportamento delle persone, le reazioni, i modi di vestire e di agire.
Si parla tanto di “influencer”, di persone in grado di dettare le regole del comportamento che fa tendenza, e ho la sensazione che tutta questa opulenta produzione letteraria, cinematografica e televisiva la cui tematica di fondo è il “cancro camorristico” che affligge Napoli stia producendo più follower che contestatori.
Che stia anzi generando una vera e propria corrente di pensiero, uno stile di vita, oltre che un genere cinematografico e letterario.
E per giunta quel sistema sociale e culturale deviato non lo si scopre ora: la camorra a Napoli esiste da tempo immemorabile.
Ma una cosa è comprendere un fenomeno per cercare di sradicarlo, diverso è “spettacolarizzarlo”: quando lo si consegna alla rappresentazione letteraria e visiva in forma romanzata si rischia di annullare letteralmente la lettura morale che ha inizialmente generato l’interesse narrativo per trasformarlo in un fenomeno di costume.
In un mondo come quello attuale, i cui fondamenti culturali e sociologici sono profondamente deviati e la cultura sembra far sempre più paura, dare la connotazione di personaggi da romanzo, fiction o film a uomini e donne privi di valori, o meglio con valori che confliggono con una società sana e rispettosa della legalità e della libertà individuale può essere piuttosto pericoloso.
Si rischia, temo, di generare dei mostri e di annullare il valore pedagogico e morale della denuncia del “male”, trasformando una realtà abnorme e allucinante in una dimensione ideale alla quale tendere, attribuendo a esseri umani allo sbaraglio l’identità di eroi di poemi epici, ma tinti di orrore.
Rita Scarpelli