L’arte interpreta l’arte

Gianni Amelio “legge” Lorenzo Marone: dalla “Tentazione” di essere felici alla “Tenerezza” nel vivere la vita.

Qualche giorno fa ho rivisto, insieme a mia figlia Roberta, il film di Amelio “La tenerezza”, vincitore di quattro Nastri d’argento e di un premio ai David di Donatello, liberamente tratto dal romanzo di Lorenzo Marone, “La tentazione di essere felici”.

Una storia ambientata nel ventre di Napoli, nella zona dei Banchi Nuovi, in un’atmosfera orientaleggiante, che traccia il percorso di tre prototipi di generazioni: gli anziani, chiusi nelle proprie verità incontrovertibili, i quarantenni, in ginocchio di fronte alle responsabilità del quotidiano vivere e i bambini, che cercano di diventare grandi, nonostante siano in balia di adulti alla deriva.

Terminata la visione del film, inevitabile la domanda di Roberta: – E il film è proprio come il libro di Lorenzo Marone?

Chiunque vede un’opera cinematografica tratta da un romanzo ha questa curiosità, dettata  forse dalla convinzione che i film siano “messe in scena” delle storie scritte; soprattutto chi ha già letto il libro, seguirà il film tessendo un’invisibile tela di relazioni, confronti e sovrapposizioni, nel tentativo di creare i collegamenti e di individuare le differenze fra le due espressioni artistiche.

“La tenerezza” per me è stato un capitolo a parte, una storia tutta da raccontare.

Ho scelto il libro di Lorenzo Marone attratta dal titolo: “La tentazione di essere felici” mi suggeriva una storia allegra e così, a scatola chiusa, l’ho acquistato.

E invece andando avanti nella lettura mi sono ritrovata in una storia decisamente differente: un uomo anziano, profondamente radicato nella frustrazione di aver vissuto una vita molto diversa da quella che avrebbe desiderato, decide di dedicare gli ultimi anni che gli restano a essere se stesso, a dare legittimità al suo diritto di essere egoista, a gestire il rapporto con i figli senza uniformarsi più alle modalità stabilite dalla moglie defunta.

Insomma una vita incentrata sui propri bisogni, dove poter, fra l’altro, dare sfogo alla sua mai sopita passione per le donne, che aveva sempre coltivato in clandestinità, durante gli anni del suo matrimonio.

Intorno a lui, ancora piacione e finalmente in pensione dopo anni e anni di un lavoro impiegatizio svolto senza interesse, i due figli: Sveva, avvocato brillante e inquieta affettivamente e madre di un bambino e Dante, gallerista, che nasconde al padre di essere omosessuale.

E poi Rossana, la donna che, a pagamento, gli regala un po’ di affetto e i vicini di casa Eleonora “la gattara” e Marino,  anche suo ex collega.

Nel palazzo arriva Emma, col suo marito violento, che chiede aiuto a Cesare ma allo stesso tempo non vuole denunciare il suo uomo perché ha paura.

Emma che, secondo il destino delle donne vittime della violenza domestica, percorrerà il suo cammino prestabilito, fino alla morte, nonostante l’anziano vicino provi più volte a aiutarla.

E sarà proprio lei, con la sua giovane vita distrutta, a portare Cesare a guardarsi di nuovo attorno e a vedere con uno sguardo diverso il mondo che lo circonda: i conflitti con i figli, la passività dell’amico Marino, le manie della “gattara”, l’affetto verso il nipotino.

Impossibile non amare il monologo finale del protagonista, nel quale elenca le cose che gli piacciono, prima di addormentarsi per l’anestesia necessaria all’intervento al cuore:

Mi piace chi sa chiedere scusa. Mi piace chi non ha ancora capito come raccapezzarsi su questa terra. Mi pace chi sa chiedere. Mi piace il sorriso dei miei figli. Mi piace chi sa amare. Non me ne vengono più in mente. Forse l’anestesia è già entrata in circolo… Meglio dormire. L’elenco lo riprenderò più tardi. 

Ah, no, un ultimo mi piace ce l’ho.

Mi piace chi combatte ogni giorno per essere felice”.

L’anno successivo vedo al Cineforum il film di Gianni Amelio, liberamente tratto dal romanzo di Marone.

Ormai il circuito dei film è così rapido che non avevo neppure avuto il tempo di vedere il trailer per cui la mia unica aspettativa è quella di godermi una bella pellicola, con un grande regista, tratto da un romanzo che ho amato dall’inizio alla fine.

Si spengono le luci e assisto davvero alla proiezione di un film molto particolare: Lorenzo, l’anziano protagonista, è il “Re dei Parafanghi”, come vengono chiamati a Napoli quegli avvocati che curano prevalentemente le cause relative agli incidenti automobilistici: è un uomo scorbutico e profondamente deluso dei suoi figli, Elena e Saverio, con i quali intrattiene rapporti burrascosi.

Ma mentre Elena, che lavora come traduttrice in tribunale, non può fare a meno di amarlo comunque, nonostante i suoi comportamenti e nonostante i continui tradimenti che l’uomo ha fatto subire alla madre, il fratello gli  manifesta una chiusura totale, accettandone solo gli eventuali aiuti economici.

Una giovane donna con la sua famiglia del “Mulino Bianco” viene a vivere vicino a Lorenzo: è una bella ragazza un po’ svampita, con due bimbi biondi e un marito educato ma estremamente stressato dalla carriera importante.

Michela entra, maldestramente, nella vita del vecchio avvocato e gli offre l’affetto e l’allegria che nessuno dei due figli era mai riuscito a dargli o che lui non aveva mai concesso loro di regalargli.

Lorenzo diventa il “nonno” della nuova famiglia, raccogliendo le confidenze di entrambi i coniugi: Michela che deve fare i conti con la sua fragilità di orfana e Fabio, che non si sente a suo agio nel ruolo di padre.

Una famiglia come tante, un nonno come tanti. Eppure quel nuovo equilibrio si dissolve in un attimo, quando Fabio perde il controllo e uccide i bambini e se stesso, lasciando la moglie in fin di vita.

L’anziano vicino, interpretato da un eccezionale Renato Carpentieri, si concentra nel ruolo di padre, vegliando in ospedale la ragazza fino alla fine, che arriva dopo pochi giorni di vane speranze.E riscopre il desiderio profondo di genitorialità, lasciato inaridire forse, per paura di non essere più in grado di offrire qualcosa, forse per i sensi di colpa causati dalle infedeltà familiari.

La straordinarietà di questo film, testimoniata dai numerosi riconoscimenti ricevuti, è messa in luce anche grazie a una Napoli chiaroscurale, radicata in un tessuto socioculturale multietnico dal ritmo lento.

Ma non è certamente la Napoli dei vecchi palazzi dai muri sottili descritti da Lorenzo Marone, animati da una vita di condominio chiassosa e un po’ pettegola ma piena dell’umanità del popolo partenopeo.

Così come i due figli, cupi e sofferenti, messi in scena da Amelio, poco hanno a che vedere con i relativi personaggi del romanzo, alla ricerca di risposte sulla loro vita, nonostante spesso tale ricerca faccia male.

E il Lorenzo di Amelio, uomo ormai arresosi alla vita, al punto tale da lasciare l’ospedale di sua volontà dopo un infarto, è diametralmente opposto al Cesare di Marone, che nonostante gli anni si picca ancora di amare le donne, magari facendosi aiutare dal Viagra, che sprona l’amico Marino a uscire, che si rende subito conto che la giovane vicina, Emma, è in pericolo, anche se non si rende conto di quanto lo sia.

“C’è una sola cosa che accomuna il film al romanzo, secondo me…la intensa poeticità di entrambe le opere e la straordinaria bravura di Gianni Amelio e di Lorenzo Marone.

Perché ambedue ci hanno regalato emozioni così originali e allo stesso tempo così potenti, da risplendere di luce propria, letteratura o cinema che sia.”

Questa è stata la risposta che ho dato a Roberta, mia figlia.

Rita Scarpelli

 

Pubblicato da Rita Scarpelli

Sono Rita Scarpelli e vivo a Napoli, una città complessa ma, allo stesso tempo, quasi surreale con i suoi mille volti e le sue molteplici sfaccettature. Anche forse grazie a questa magia, da quando ero bambina ho amato la lettura e la scrittura . Nonostante gli studi in Economia e Commercio mi abbiano condotta verso altri saperi e altre esperienze professionali, il mio mondo interiore è sempre stato popolato dai personaggi e dalle storie dei libri che leggevo e ancora oggi credo fortemente che leggere sia un’esperienza meravigliosa. Parafrasando Umberto Eco, “Chi non legge avrà vissuto una sola vita, la propria, mentre chi legge avrà vissuto 5000 anni…perché la lettura è un’immortalità all’indietro”. Lo scorso anno ho vissuto l’esperienza incredibile di pubblicare il mio romanzo di esordio “ E’ PASSATO”, nato dalla sinergia dell’ amore per la scrittura con la mia seconda grande passione che è la psicologia. E poiché non c’è niente di più bello di condividere quello che ama con gli altri, eccomi qui insieme a voi!

2 Risposte a “L’arte interpreta l’arte”

  1. Ho visto il film di Amelio. Onestamente non mi è molto piaciuto , al di là della bravura degli attori, su tutti Renato Carpentieri, attore superlativo . Purtroppo non ho letto il libro di Marone, ma la recensione mi fa capire che siamo di fronte ad una storia abbastanza diversa da quella del film , forse più vicina alla sensibilità e alla solarità di di noi napoletani.
    Qualche anno fa, ad un incontro organizzato da una associazione culturale in cui si discuteva con quale colore alcuni importanti scrittori identificavano la città di Napoli, mi è capitato di ascoltare l’intervento di Lorenzo Marone. Molti autori avevano parlato dell’azzurro (del cielo, del mare..) , del giallo (il sole..), lui scelse il grigio, colore abbastanza triste e anonimo, ma che in effetti è molto presente nella città : da quel momento mi sono innamorata di questo scrittore perchè fece una descrizione bellissima della città, attraverso un percorso che portava dai grigi muri del Maschio Angioino, alle antiche strade del centro storico col grigio piperno delle case. Ora , ancora di più, la recensione di Rita Scarpelli così entusiasta del libro di Marone mi fa capire che non avevo torto su questo autore. Comprerò il libro.

    1. Vale la pena leggere il libro che ha per me solo pochi punti in comune con il film,che è liberamente tratto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.