Il senso della maternità nel nome del desiderio.
La nascita di un bambino è un miracolo; un miracolo che accogliamo sempre con incredibile stupore come se fosse il primo essere umano a venire al mondo.
Eppure quel bambino è stato generato da una madre che a sua volta è nata prima di lui.
Per me il vero miracolo è proprio la madre, che col suo corpo ma soprattutto con la sua volontà consente all’umanità di continuare a esistere e all’amore di trovare le sue strade verso la vita.
Il mistero della nascita si svela infatti proprio attraverso la madre che di esso è custode e artefice. Da sempre, da quando si è popolata la Terra.
Sono stati scritte moltissime opere sul ruolo della madre, testi celebrativi, romanzati, psicoanalitici e lo stesso è accaduto con i film e con la pittura e la scultura.
Ognuno ha tentato a modo suo di svelare quel mistero, finendo per aggiungerne solo un altro brandello.
Perché la madre è un ruolo, una coniugazione della vita, un tassello del tessuto sociale e mille altre cose. Non è possibile rinchiuderla in una definizione o attribuirne delle categorizzazioni: la madre è un’entità che sfugge e si dissolve quando si prova a darle un’identità.
Il poeta Rilke, uno dei più immaginifici autori del Novecento, sovrapponendo l’immagine della madre con quella della Madonna, scrisse :“Tu non sei più vicina a Dio di noi…ma hai stupende benedette mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno ma tu sei la pianta”.
Massimo Recalcati, noto psicanalista, nella sua opera “Le mani della madre” che trae il titolo proprio dal Poema di Rilke, muove appunto dal bisogno di coloro che si interrogano sul significato del ruolo della madre nella società moderna, alla luce della rivoluzione sociale e culturale degli ultimi cinquant’anni.
“Cosa resta della madre nel nostro tempo?”, chiedevano infatti spesso coloro che intervenivano alle sue conferenze.
La domanda nasce proprio dalla metamorfosi avutasi nel corso degli anni delle identità di genere: la cultura, per così dire patriarcale, aveva infatti incasellato i due generi sessuali, maschili e femminili, in archetipi “moliticamente” strutturati, dai quali erano derivati gli altrettanto pesanti ruoli di padre e madre.
E così accanto all’uomo, codificato nel ruolo di padre-padrone, era stato costruito quello della madre, stigmatizzato dallo spirito di sacrificio e di abnegazione, dal quale non si poteva sfuggire, pena la identificazione della donna rea di tale dirottamento con un soggetto anarchico e antisociale.
Gli straordinari cambiamenti dell’ultimo secolo hanno sovvertito completamente questa impostazione: le donne di oggi lavorano, sono impegnate su più fronti e spesso decidono di rimandare la maternità fino a che l’orologio biologico lo consente, pur sentendo, nella profondità dei propri pensieri, di stare venendo meno al ruolo sociale che atavicamente apparteneva loro.
Nella maggior parte dei casi convivono inoltre con una silente sensazione di frustrazione, non riuscendo a dedicare tutto il tempo che vorrebbero ai propri figli.
E allora perché il miracolo della vita continua a compiersi?
Perché, nonostante la donna abbia finalmente potuto ottenere riconoscimenti e soddisfazioni in ambiti precedentemente appannaggio degli uomini e si sia potuta affermare in una dimensione di legittimità disgiunta dalla esclusiva funzione procreativa ella cerchi, talvolta anche in età non propriamente secondo natura, la maternità?
La risposta di Massimo Recalcati è, a mio avviso profondamente illuminante: il bisogno di procreare si rinnova perchè “attraverso il desiderio materno viene trasmesso il sentimento stesso della vita”. E tale desiderio fa sì che “attraverso le cure materne si riconosce il valore singolare di ogni figlio, offrendo un desiderio non anonimo”.
Dunque è la capacità di riconoscere in ogni figlio un valore unico e insostituibile che rende il ruolo stesso della madre ancora e sempre “insostituibile”, rinnovandone il desiderio stesso di genitorialità.
Questo bisogno, trasversale nelle epoche storiche, ha condotto e conduce tuttora le donne a vivere la maternità per esprimere appieno se stesse, nonostante il riconoscimento sociale di questo ruolo si sia modificato e spesso la sua esplicazione sia diventata addirittura più difficile.
Fra le tante madri raccontate dalla letteratura contemporanea ho trovato particolarmente espressive del “desiderio della maternità” quelle narrate da Myrta Merlino nel suo lavoro, intitolato appunto “Madri”.
La giornalista napoletana ci racconta infatti la storia di donne particolari, alcune più famose altre meno, rappresentative di una comune visione di maternità che, pur non essendo univoca, ci trasmette un messaggio corale.
Tutte le protagoniste, come Toya, madre nera che si tuffa in un corteo pericoloso per farne uscire il figlio, Doroty, la cui figlia è Hilary Clinton, diventata bandiera politica o Michaela, genitrice e preside del Liceo coinvolto nel caso delle baby squillo, nonostante il loro percorso genitoriale sia stato costellato da difficoltà e fallimenti, hanno continuato a svolgerlo con abnegazione e grande determinazione proprio perché, per ognuna di esse, il proprio figlio o la propria figlia “è un valore insostituibile”.
Testimoniando, ognuna di loro, che la cura materna è qualcosa che non risponde ad alcun finalismo se non quello dell’amore stesso e, soprattutto, che prescinde dal comportamento del figlio stesso.
Proprio per tale motivo, nonostante la delusione che talvolta i figli danno a chi li ha desiderati al punto di metterli al mondo, le “madri” di Myrta Merlino, come tutte le madri, hanno continuato e continuano ad amarli: come scriveva Balzac “Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre il perdono”.
Rita Scarpelli