Oggi ricorre l’anniversario della nascita nel 1889 di Gabriela Mistral pseudonimo di Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga
Una delle voci più importanti della poesia cilena ed una delle poche donne insignite al premio Nobel per la letteratura nel 1945.
La sua vita e le idee anticonformiste della poetessa si scontrano ben presto con la conservatrice società cilena, credeva fermamente nel bisogno di dare un’istruzione a tutte le donne, idee considerate quasi rivoluzionarie. Ebbe vita difficile anche nello svolgere il suo lavoro di educatrice , in quanto non in possesso di una laurea formale, con l’aiuto di sua madre riesce a completare gli studi ma venne ben presto espulsa per le sue idee politiche, desiderava rendere accessibile l’istruzione alle donne di ogni ceto sociale. Famoso è il suo impegno per la nascita di biblioteche pubbliche in Cile e Messico
Nella sua poetica ha sempre avuto un occhio di riguardo verso le classi più miserevoli e meno abbienti..
Mentre all’estero è conosciuta e famosa per la sua meravigliosa poetica, nel suo paese è tutt’ora ricordata come un’insegnante di campagna e per le sue filastrocche.
Nella sua vita ha molto viaggiato ed il suo talento celebrato in varie parti del mondo, Il rapporto con la sua terra natia è sempre stato difficile ed ambiguo, infatti mentre mieteva successi in tutto il mondo , nel suo paese i suoi scritti non erano ben accetti, per il loro contenuto, che si distaccavano dalla visione maschilista, centralista ed elitaria.
Muore a New York nel 1957 lasciando in eredità alla sua compagna di vita Doris tutti i proventi del suo lavoro e diritti d’autore, ad eccezione del sud America dove non dimenticando le sue origini lascia tutto ai bambini poveri di Monte Grande. quartiere dove lei stessa aveva trascorso la sua infanzia. Ma purtroppo il regime di Pinochet tentando di appropriarsi di tutto il patrimonio della poetessa, ai bambini è arrivato ben poco cosa.
In Italia è poco conosciuta, ne vogliamo parlare proponendo alcune delle sue poesie più famose.
Dammi la mano
Dammi la mano e danzeremo
dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
con lo stesso passo ballerai.
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami Rosa ed io Speranza
però il tuo nome dimenticherai
perché saremo una danza
sulla collina e niente più.
Desolazione
La bruma spessa, eterna, affinchè dimentichi dove
mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia.
La terra nella quale venni non ha primavera:
ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde.
Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi
e di urlo, e spezza, come un cristallo, il mio grido.
E nella pianura bianca, di orizzonte infinito,
guardo morire immensi occasi dolorosi.
Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta
se più lontano di lei solo andarono i morti ?
Tanto solo loro contemplano un mare tacito e rigido
crescere tra le sue braccia e le braccia amate!
Le navi le cui vele biancheggiano nel porto
vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei ;
i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi
e recano frutti pallidi, senza la luce dei miei orti.
E l´interrogazione che sale alla mia gola
al vederli passare, mi riscende, vinta:
parlano strane lingue e non la commossa
lingua che in terre d´oro la mia povera madre canta.
Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa;
guardo crescere la nebbia come l´agonizzante,
e per non impazzire non conto gli istanti,
perchè la notte lunga ora solo comincia.
Guardo il piano estasiato e racccolgo il suo lutto,
perchè venni per vedere i paesagggi mortali.
La neve è il sembiante che svela i miei cristalli;
sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo !
Sempre essa, silenziosa, come il grande sguardo
di Dio su di me; sempre la sua zagara sopra la mia casa;
sempre, come il destino che non diminuisce ne passa,
scenderà a coprirmi, terribile e estasiata.
Intima
Non stringere le mie mani.
Verrà il tempo infinito
di riposare con molta polvere
ed ombra tra le dita intrecciate.
E tu dirai:
‘Non posso
più amarla; le sue dita
si sgranarono come le spighe’.
La mia bocca non baciare.
Verrà l’istante pieno
di spenta luce, senza labbra
starò sotto un umido suolo.
E tu dirai: ‘L’amai, ma non posso
amarla più, ora che non aspira
l’odore di ginestre del mio bacio’.
E mi rattristerò nell’udirti;
tu parlerai come un cieco ed un pazzo,
perché la mia mano sarà sulla tua fronte
quando le dita si spezzino,
e scenderà sopra il tuo volto
pieno d’ansia, il mio respiro.
Non mi toccare dunque. Mentirei
nel dirti che ti dono
il mio amore nelle braccia mie protese,
nella mia bocca, nel mio collo,
e tu, credendo d’averlo esaurito
ti sbaglieresti come un bambino ingenuo.
Perché il mio amore non è solo questo
stanco e restio covone del mio corpo,
che trema tutto offeso dal cilicio
e in ogni volo mi resta indietro.
È ciò che sta nel bacio e non nel labbro,
ciò che spezza la voce e non il petto:
ma è un vento di Dio, che passa lacerando
nel suo volo, la polpa delle carni.
La donna forte
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni,
donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata;
quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia,
ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile.
Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava,
chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio;
sotto questo ricordo, che t’era bruciatura,
cadeva dalla mano, serena, la semente.
Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio,
e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi,
ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto.
E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi,
perché tra cento donne non ho visto il tuo volto,
e l’ombra tua nei solchi,
seguo ancora nel mio canto.