Questo termine ad alcuni può suonare nuovo, magari è stato sentito solo qualche volta; eppure non è così. Per l’utopia, il termine contrario, forse abbiamo più familiarità o, per lo meno, crediamo di averlo sentito di più.
Entrambe le parole derivano al greco: οὐ (non) τόπος (luogo) per l’utopia e δυς (cattivo) τόπος (luogo) per distopia. Quindi hanno la stessa desinenza, ma cambia la radice. Che significa?
Entrambe le parole possono essere osservate da diversi punti di vista: glottologico, filosofico, letterario, politico, eccetera, che però hanno tutti un comun denominatore. Approfondiremo un’altra volta l’utopia, sulla quale, forse, è più chiaro il significato, se non altro per quello che ha sempre avuto in ambito politico.
Sulla distopia, invece, il discorso è in apparenza più complesso, o meglio, di più difficile comprensione. Eppure, sembra strano, ma la distopia è in mezzo a noi e in certe epoche, come quella che stiamo ancora attraversando – quella pandemica – è stata ancora più presente, ma come? Innanzitutto essa si colloca assai bene nel discorso filosofico, essendo legata al divenire (o movimento) del mondo sensibile, concetto di Aristotele, il quale disse che il divenire è nato all’inizio del tempo e senza il tempo non esisterebbe il divenire. E poiché il divenire, appunto, corre assieme al tempo, ogni attimo che passa diventa passato dopo essere stato presente e non sapremo come sarà l’attimo dopo che è ancora futuro. Il passato diventa storia, perché – dice Aristotele – possiamo narrarla in quanto ormai conosciuta; invece il divenire integra il futuro e nessuno può narrarlo, solo prevederlo o pensarlo.
È il post, ciò che dopo, frutto del divenire; mentre è ante ciò che prima è stato e che ormai è immutabile. Troviamo quindi una cristallizzazione del passato, che condiziona il presente e il futuro. E l’uomo, in tutta la sua storia, è sempre stato curioso del suo futuro, sebbene gli incutesse paura, in quanto ignoto è il momento della morte. Diversi sono stati i modi in cui sono state fatte, nei secoli, le previsioni del futuro. I Greci si affidarono agli Dei e all’Oracolo di Delfi, dal quale andò lo stesso Socrate, I Romani si affidarono agli Dei, nel medioevo ci furono maghi e fattucchiere per esprimere un esoterismo basato sulla superstizione – che esiste ancora oggi – e che dire dell’astrologia, in cui dodici segni sarebbero capaci di condizionare il mondo? In una posizione più rassegnata, troviamo il concetto di destino che ha avuto la sua massima espressione con l’escatologia delle religioni monoteiste, in cui è costante l’assioma di un Dio che decide la vita degli uomini, segnandone il destino; con la consecutio che ogni fatto dell’esistenza umana è diretto volere di Dio nel bene e nel male e con la prospettiva di una vita ultraterrena in cui l’uomo, a seconda di come si è comportato in vita, godrà della luce del Paradiso o soffrirà per sempre nel fuoco degli Inferi. Ma la distopia che c’entra?
Abbiamo parlato di prevedere il divenire avanti a noi, ma pensare a come possa essere il futuro è un altro discorso. Pensare come sarà una cosa non è prevedere come diventi o resti; è opinione. Il prevedere si fonda su elementi del presente, non influenzati dal nostro modo di pensare. Pensare come sarà è invece frutto del nostro modo di vedere e considerare le cose – anche con pregiudizio, malizia, scietticismo,,etc. – indipendentemente da fatti o situazioni del presente che potrebbero condizionare il futuro della cosa stessa, come succede con la previsione. Il pensare un futuro in modo utopico o distopico, nel linguaggio corrente, lo si fa normalmente ricomprendere comunque nella previsione, ma dal punto squisitamente filosofico non è così.
Giungiamo quindi al punto più significativo di questo discorso, affrontando il tema della distopia.
Pensando al futuro innanzi a noi, sia esso relativo a noi ovvero riguardante i fatti sociali, politici, umani del mondo esterno, siamo portati a vederlo dal nostro punto di vista e più è ridotta la nostra mentalità (sino ad arrivare all’ottusità), più penseremo a un futuro ancorato alle nostre idee. Nel caso della distopia, l’individuo esprime la parte più pessimista e catastrofista di se stesso, in cui il negativo primeggia sul positivo, architettando un futuro traviato, che al suo massimo livello è espresso con una devianza tale avvicinare i due universi paralleli del futuro e del futuribile (questo futuro che non potrà mai verificarsi in quanto parte da basi storiche e scientifiche inesistenti). La visione distopica, quindi, attrae la parte più feroce del pessimismo (volgarmente detto pessimismo cosmico) in quanto il soggetto ritiene che ciò che è stato, il passato, sarà sempre migliore del futuro. Pertanto, la visione di un futuro catastrofico, in cui le cose belle del passato non potranno mai tornare, pregna la mentalità dell’individuo e può essere assai contagiosa, in quanto la visione distopica tocca la sfera emozionale della psiche e può coinvolgere emotivamente buona parte dell’opinione pubblica. Argomenti quali la fine del mondo nei modi più fantasiosi, una società corrotta in cui lo stato di diritto è sparito, l’estremizzazione di un mondo sconvolto da eccessivi cambiamenti climatici sono il risultato di una mentalità distopica individuale e collettiva, che deriva anche da una componente cinica dell’individuo bramoso di una rivelazione di un futuro impossibile, ma dall’alto contenuto emozionale, fino a goderne. In aiuto al pensiero individuale distopico, si può agevolmente pensare che la produzione letteraria (l’esempio più significativo di romanzo distopico è “1984” di Orwell) e cinematografica, che narra di eventi catastrofici, sia frutto di una domanda da parte di un pubblico che cerca risposte su un futuro immaginario che, certamente, mai si avvererà.
Personalmente, penso che l’estremizzazione di qualunque fatto umano o naturale che potrebbe accadere sia frutto di contesti culturali scadenti, che hanno la loro massima espressione nell’analfabetismo funzionale, perché l’intervento della ragione, supportato dalla conoscenza e dal rigore scientifico, a priori esclude qualsiasi eccesso, in quanto nulla potrà mai succedere se la basi stesse degli assunti sono impossibili. Quindi, si potrà ipotizzare un futuro peggiore, che però non sarà mai, derivato da una distorta e relativistica visione della realtà.
Quindi cerchiamo di essere ragionevoli, non guardiamo tuttavia il futuro con pessimismo, ma con un sorriso, sorretti dalla speranza per un mondo migliore. Questa non è utopia, è ottimismo, l’unico sale che può consentirci di vivere sereni il dono dell’esistenza.
Giovanni Margarone