Sono con Titti Marrone, che ha gentilmente accettato di farsi intervistare oggi, in un caffè di via Aniello Falcone al tiepido sole di un pomeriggio che sa già di primavera.
Buongiorno, Titti, e grazie di essere qui a rispondere alle domande che ti rivolgerò per i nostri lettori.
Direi di cominciare da un post che io stessa ho pubblicato su facebook l’altroieri:
“Sala gremita, sedie aggiunte in corso d’opera e persone in piedi stasera al Mercadante per la presentazione del libro di Titti Marrone “La donna capovolta”
Straordinarie le letture di Cristina Donadio, che in una di queste ha esibito addirittura un accento moldavo, belli e partecipati gli interventi di Titta Fiore e Valeria Parrella.
Iocisto ad accogliere i partecipanti con il garbo di sempre.
E notizia fresca fresca il libro, edito da Iacobelli, è stato appena segnalato al Premio Strega.
I nostri migliori auguri all’autrice”
Uno straordinario successo il tuo, se si considera, da un lato, che il libro è appena uscito e, dall’altro, che la candidatura è venuta da Marina Zancan, una critica letteraria di quelle toste, come tu dici.
Cosa hai provato, vuoi dircelo?
Una grandissima allegria perchè questa segnalazione, assolutamente inaspettata e arrivata da una persona per cui ho un’enorme stima, ma che non conosco, smentisce, per quel che mi riguarda, quello che si dice sulle candidature al premio Strega, e cioè che tutti i giochi sono già fatti e che è tutto già deciso. Probabilmente andando avanti, salendo cioè verso le vette nella selezione, non è escluso che possa essere così. Però devo dire con la mia esperienza che può capitare a sorpresa che un piccolo editore come Iacobelli e un autore come me, che ha già pubblicato, ma non è noto in modo cospicuo, vengano segnalati per questo premio. Per quel che mi riguarda, questa segnalazione e il fatto che a farla sia stata Marina Zancan equivale già a un premio.
Questo non è il tuo primo romanzo, ma i più ti conoscono per la tua attività di giornalista. Vuoi dirci cosa ha in comune e in cosa diverge la scrittura di un testo narrativo da quella giornalistica?
Sono due cose molto diverse, perchè la scrittura di un libro di narrativa viene curata, meditata, riflettuta, ha un tempo infinitamente più lungo, che è anche il tempo nel quale si distendono i pensieri. Io penso che un libro debba essere lasciato a riposare quando è finito, nel senso che se ne debbano prendere le distanze per poi tornarci, per rileggerlo e rimeditarlo. Io ho fatto così con questo libro.
Quando scrivo gli articoli, invece, è tutto completamente diverso. A me piace moltissimo scrivere articoli, mi piace l’adrenalina e mi viene facile farlo, sono anche molto rapida. Infatti i miei colleghi mi chiamano Vac’ e press, (e qui ride), perchè sono veloce, scrivo di getto. Quando, invece, scrivo un libro, lo faccio piano, medito e rifletto su ogni parola, che poi magari cancello e riscrivo. Per quello che mi riguarda, quindi, sono due scritture molto diverse.
Vuoi raccontarci di come nasce la tua passione per la parola scritta?
Nasce da mio padre, che era un maestro elementare, ma anche un giornalista. Poi, dovendo scegliere tra le due cose da giovane, perchè non poteva fare il collaboratore di giornali e insieme il maestro, scelse di fare il maestro. Ma è lui che mi ha trasmesso quest’amore, perchè in casa c’erano sempre libri, ma anche giornali. In famiglia si è trasmessa la leggenda che io abbia imparato a leggere e a scrivere ritagliando le lettere dai giornali. Quindi un amore anche materiale, artigianale per la carta il mio, direi.
Titti Marrone è una ragazza del secolo scorso. Ti va di raccontarci in poche parole, per quanto possibile, di questa ragazza, che ha frequentato il liceo classico al Giambattista Vico?
Si, insomma, la mia storia è quella di tutte le persone della mia età, che hanno avuto quindici anni nel 68, anno che io ho vissuto molto intensamente, dedicandomi alla lotte studentesche e all’impegno sociale. Poi mi sono sposata molto giovane e ho cominciato a lavorare prima all’università, perchè mi sono laureata in storia contemporanea e pensavo che avrei fatto quel tipo di lavoro. Ero una ricercatrice di storia contemporanea, appunto, sempre però con questa passione per il giornalismo che mi aveva trasmesso mio padre, così, quando ci fu un concorso per borse di studio che equivalevano ad un ingresso nel mondo dei giornali, io lo feci insieme a Titta Fiore, Valerio Caprara e altri amici. Lo vincemmo e cominciammo a lavorare nei giornali. Da borsista poi sono stata assunta al Mattino dove ho lavorato per 35 anni come redattrice. In seguito ho avuto una bambina, ho perso mio marito e questo è stato uno snodo molto duro e da questa vicenda è nata l’amicizia con Cristina Donadio, che aveva subito anche lei una perdita uguale quando era molto giovane.
Questa è la mia storia.
Il tuo ultimo libro è dedicato alle amiche. Le donne in generale e le tue amiche in particolare occupano un posto significativo nel tuo cuore, è così?
Si, è così, proprio così. Esiste una rete costituita dalle mie amiche e poi, come in una specie di gioco fatto di cerchi che si allargano, ci sono prima le più intime, quelle di cuore e di mente, poi quelle del cuore, poi quelle della mente e così via.
In generale, io trovo che tra le donne ci sia in questo periodo un modo nuovo di riconoscersi, di guardarsi negli occhi e di condividere, anche a prescindere dall’età, la consapevolezza che certi problemi e ostacoli non si supereranno mai, se non si fa rete tutte insieme, e che le cose orribili che succedono alle donne nel mondo, dall’Arabia Saudita a Melito, a San Giorgio a Cremano, dove sono state uccise le ultime donne, continueranno a succedere. Quindi possiamo solo provare a contrastare tutte insieme, cercando di costruire una cultura diversa e adottando un modo diverso di guardare alle donne e di ottenere rispetto.
Per quanto ti conosca appena, sento di poter affermare che sei una donna di passioni. Passioni che si esprimono a 360 gradi, direi, che non risparmiano alcun ambito. Nella scrittura, nei sentimenti, nell’amicizia, nella vita tutta, insomma.
Personalmente posso testimoniare, per esempio, dell’impegno che hai profuso sin dagli inizi nel sostenere Iocisto, la tua libreria del cuore, come l’hai definita anche l’altra sera. Ma posso testimoniare anche dell’affetto che ti ha circondato al Mercadante in occasione della presentazione del libro mercoledì pomeriggio. Intorno a te le persone, molte delle quali in piedi per tutta la durata dell’evento, si sono strette come in un abbraccio. Il che vuol dire senz’altro che, quando si mette passione nelle cose, questa ti torna indietro in qualche modo, è così?
Si, si e si. Partiamo dall’esempio di Iocisto, che credo sia una delle bellissime cose di Napoli. Quando noi abbiamo aperto questa libreria nel 2014, già cinque anni fa, nessuno di noi avrebbe immaginato di durare fin qui. Noi andiamo avanti in modo stentato perchè, come si sa, la vendita di libri non aiuta a campare. Noi a stento copriamo le spese e neanche sempre. Per cui spesso quelli tra noi che possono mettono mano alla tasca per fare fronte. In questi giorni, per esempio, la libreria è chiusa per lavori di ristrutturazione, perchè è caduta la controsoffittatura. E allora faremo una festa capovolta, cosa decisa stamattina (e ride di nuovo), il 30 marzo per inaugurare la riapertura, perchè questa è una libreria capovolta, perchè mette in atto la volontà dei suoi soci di farla vivere con il lavoro volontario di tutti quelli che la sostengono e l’appoggiano. In questo modo si cerca con la propria passione di sopperire a quel che manca, all’attenzione per questa città, per le iniziative culturali, per i progetti e le idee legati a un luogo come Napoli, che avrebbe invece potenzialità enormi da spendere. Così noi passione e idee ne mettiamo ogni giorno in campo tante. Per esempio ci siamo inventati i tour dell’amica geniale per far conoscere questa realtà e per costruire un’attenzione e un interesse per i turisti sui luoghi di un filo narrativo così bello come quello della Ferrante. E, come questa, tante altre cose.
Poi credo che la passione delle persone a Napoli sia in generale una forte leva per far crescere questa città, ma certo va coniugata con una volontà politica di riscattare il presente e costruire il futuro e questa strada non mi pare si intraveda al momento.
Nel tuo ultimo libro analizzi con lucidità e ironia la condizione dei cinquanta-sessantenni, gli ex baby boomer, quelli viziati dalla fortuna, la generazione baciata dalla buona sorte. E, in particolare, ti soffermi sulla condizione delle donne. Protagoniste del romanzo, infatti, sono due donne, Eleonora e Alina, ciascuna con le proprie peculiarità, ma accomunate da un unico tratto, intelligenza e cultura.
A questo punto inevitabile diventa la domanda sull’autobiografia. Quanta ce n’è in questo tuo ultimo lavoro? Quanta in genere nella tua scrittura? E qual è il tuo pensiero riguardo all’autobiografia?
Si, in questo libro c’è molta della mia vita e di quella delle mie amiche, perchè è vero quello che ha detto Valeria Parrella, che uno prende appunti, cattura spunti da cose che colpiscono e poi le mette nei libri. Nella mia scrittura, quindi, ce n’è sempre molta, ma questo dipende anche da una specie di deformazione professionale che viene dal mio vero mestiere che è quello di giornalista. Cioè io devo sempre riferirmi a qualcosa di vero, di reale, a qualcosa che conosco bene. Non so inventare di sana pianta. In questo libro ci sono molti personaggi e situazioni totalmente inventati, però l’impianto di base per me dev’essere la vita vera. Quanto all’autobiografia, credo sia una cosa molto delicata. Credo che in fondo nessuno scriva veramente autobiografia perchè è difficile, se non impossibile, per il tramite della scrittura riferire e oggettivizzare dei percorsi che definiscono il proprio essere e che in genere sono molto complessi. Quindi io credo che l’autobiografia sia uno dei generi più ambigui, più sfuggenti, più difficili, ma che ci sia piuttosto una specie di autobiografismo involontario, di cui però lo scrittore è consapevole in qualche maniera, e che appartiene a tutti gli scrittori.
Senza voler anticipare nulla del romanzo, così che i nostri lettori conservino intatto il piacere di leggerlo, posso dire però che affronta temi centrali della contemporaneità. I mutati assetti familiari con il prolungarsi di esistenze tenute in vita grazie alla farmacopea, l’esigenza di far fronte alle necessità sopravvenute attraverso il ricorso a manodopera straniera, i sensi di colpa che ne derivano con le inevitabili ricadute sulle vite dei figli, che non sono più giovani, ma non ancora così vecchi da potersi immolare del tutto sull’altare del sacrificio. E ancora lo sguardo ottuso e disinformato dell’occidente sul disastro dei paesi dell’est, cieco sulle vite spezzate di queste donne venute da lontano, i rapporti tra le diverse culture in una società che per forza di cose è divenuta multiculturale, e poi ancora il rapporto con se stessi e i mutamenti inflitti dal tempo per questa generazione a cavallo, appunto, tra la perduta giovinezza e una vecchiaia cui non sente di appartenere e, soprattutto, di volersi consegnare. E poi il ritratto di una generazione con alle spalle un passato da sinistra militante e davanti un presente di pregiudizi e contraddizioni irrisolte, quelle dell’essere divenuta espressione della borghesia contestata negli anni della giovinezza. Ho ritrovato tra le tue pagine addirittura l’espressione “espropri proletari”, non sentita più da tanto. Insomma, davvero tanta roba. Argomenti non da poco, che tu affronti, aprendo squarci sulla condizione umana e sugli snodi cruciali dell’esistenza, ma con una leggerezza e un’ironia che strappano continuamente il sorriso, riuscendo così nel miracolo di riequilibrare un piano, che altrimenti sarebbe stato pericolosamente inclinato verso la tristezza e la malinconia.
Possiamo dire, dunque, che l’ironia è un modo per deviare il dolore e la leggerezza la cifra con cui cerchi di alleggerire un vivere diversamente faticoso?
Che bella domanda! Ma si, è proprio così. Quest’ironia è una risorsa vitale per me, che cerco di mettere in campo in tutte le cose della mia esistenza. Spero di esserci riuscita scrivendo questo libro, anche applicandola a una materia ostica e difficile da raccontare come la malattia e la vecchiaia, in particolare quella della propria mamma, dei propri genitori e anche ad ambiti come i sensi di colpa, di inadeguatezza e di fallimento che la mia generazione vive rispetto a un presente assolutamente differente da quello che si immaginava da giovani e nel quale risulta paradossale riconoscere se stessi, perchè in realtà noi che avremmo voluto rovesciare, cambiare, modificare, ci ritroviamo ad essere portatori di pregiudizi, di punti di vista, di chiusure e di incapacità di andare verso gli altri, che mai avremmo immaginato. Anche nel libro precedente, Il tessitore di vite, c’è la rappresentazione di questa generazione, della cosiddetta borghesia illuminata che non voleva essere borghesia, ma lo è diventata, che non ha nulla di illuminato ed è anche molto opaca, perchè vive profondissime sensazioni di disagio e di fastidio per chi viene percepito come diverso. E allora ho pensato che raccontare queste cose ridendoci su, anche se si tratta di una risata alquanto amara, fosse un espediente narrativo per rappresentare questa realtà in una maniera che non fosse sentenziosa. Perchè poi, quando uno, dopo che ha tradito i suoi percorsi ed è arrivato ad approdi come questi, finisce pure con l’essere sentenzioso, allora è meglio chiudere (qui ridiamo entrambe).
Volutamente non ho raccontato nulla del libro, però una cosa vorrei dirla. Intanto che è da leggere assolutamente, che tiene incollati alle sue pagine dalla prima all’ultima riga per la storia, per lo stile, per la ricchezza dei punti di vista e per un finale inatteso che ne schiude un altro ancora proprio nelle ultimissime righe. Come a dire che mai nulla va dato per scontato, pur quando sembrava che si fosse addivenuti all’unica conclusione possibile.
Grazie, Titti, di essere stata con noi oggi e del tempo che ci hai amabilmente dedicato.
Ora goditi questa meritatissima soddisfazione.
Grazie a te per la bella intervista.