Vittorio Alfieri è considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, oggi nella ricorrenza della sua morte avvenuta a Firenze, ove è sepolto, il giorno 8 del mese di ottobre del 1803, noi lo vogliamo ricordare con tre suoi splendidi Sonetti.
Sonetto XX
S’io t’amo? Oh donna! Io nol dirìa volendo.
Voce esprimer può mai, quanta m’inspiri
dolcezza al cor, quando pietosa giri
vèr me tue luci ove alti sensi apprendo?S’io t’amo? E il chiedi? E nol dich’io tacendo?
E non tel dicon miei lunghi sospiri,
e l’alma afflitta mia, ché par che spiri
mentre dal tuo bel ciglio immobil pendo?E non tel dice ad ogni istante il pianto
cui di speranza e di temenza misto,
versare a un tempo e raffrenare io bramo?Tutto tel dice in me: mia lingua intanto
sola tel tace; perché il cor s’è avvisto
ch’a quel ch’ei sente, è un nulla il dirti: Io t’amo.********
Sonetto CLXXIII
Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ i figli suoi nessuna orrida belva.
E quanto addentro più il mio piè s’inselva,
tanto più calma e gioia in me si crea;
onde membrando com’io la godea,
spesso mia mente poscia s’inselva.
Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
nè ch’io mi al buon sentier più appresso;
ma non mi piacque il vil secol mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.
********
Sonetto CXXXV
Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il Tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso…
Nullo error mai felice al par mi fea.
********
Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, Vittorio Alfieri nato ad Asti il 16 gennaio 1749, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche. Rimasto orfano di padre a meno di un anno, a nove anni entrò nella Reale Accademia di Torino, ma, insofferente della rigida disciplina militare, ne uscì nel 1766 (nell’autobiografia ne parlerà come di anni di “ingabbiamento” e di “ineducazione”). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell’esercito regio ed è assegnato al reggimento provinciale di Asti. Da quel momento, però, viaggia a lungo per tutta l’Europa, spesso precipitosamente, per dare sfogo ad un’inquietudine interiore che difficilmente si placava. Disadattato e riottoso, era profondamente disgustato dagli ambienti cortigiani di Parigi, Vienna e Pietroburgo, mentre, viceversa, lo attiravano le solitudini dei paesaggi scandinavi o di quelli spagnoli. Nei numerosi viaggi effettuati in quel periodo, sull’onda di quella sensibilità sensibile e onnivora, visitò paesi importanti come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Olanda e il Portogallo. Pur non avendo ancora focalizzato con precisione il centro dei suoi interessi, a quel periodo risalgono anche alcune delle sue più intense letture, che spaziavano in modo disordinato dagli illuministi francesi a Machiavelli fino a Plutarco. Tornato a Torino nel 1773, seguirono per lui anni di operoso isolamento e di lucido ripensamento su di sé e sull’ambiente che lo circondava. Di tale processo di crescita intellettuale e morale sono documento i “Giornali”, scritti per una prima parte in francese (anni 1774-75) e ripresi qualche tempo dopo in italiano (1777). Intanto, in solitudine, dalla sua penna sgorgavano centinaia di pagine di alta letteratura. Il suo talento drammaturgico andava così finalmente delineandosi. Nel 1775 riuscì a far rappresentare la sua prima tragedia, “Cleopatra”, che gli procurò un discreto successo e che gli aprì le porte dei teatri italiani, confermandolo nella sua vocazione. Basti pensare che negli anni successivi arrivò a scrivere qualcosa come venti tragedie, fra cui, per citarne alcune, “Filippo”, “Polinice”, “Antigone”, “Virginia”, “Agamennone”, “Oreste”, “La congiura de’ Pazzi”, “Don Garzia”, “Maria Stuarda”, “Rosmunda”, “Alceste seconda”, oltre all'”Abele”, da lui stesso definito “tramelogedia”, cioè “tragedia mista di melodia e di mirabile”. Tra il 1775 e il 1790, fuggendo ogni distrazione mondana, si diede a un lavoro tenacissimo: tradusse numerosi testi latini, lesse accanitamente i classici italiani da Dante a Tasso, s’impegnò nello studio della grammatica, mirando a impadronirsi dei modi toscani. Nel 1778, non sopportando di esser legato a un monarca da vincoli di sudditanza, lasciò alla sorella tutti i propri beni e, riservata per sé una pensione vitalizia, abbandonò il Piemonte e andò a vivere in Toscana, a Siena e a Firenze; fu anche a Roma (1781-83), e successivamente seguì in Alsazia (a Colmar) e a Parigi Luisa Stolberg contessa d’Albany, da lui conosciuta nel 1777, la quale, separatasi dal marito Carlo Edoardo Stuart (pretendente al trono d’Inghilterra), divenne la compagna della sua vita e la dedicataria della maggior parte delle “Rime”. Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue irrequietezze amorose. L’anno successivo fa dono alla sorella di tutti i suoi beni, mantenendo per sé solo una rendita annua e dopo vari soggiorni si trasferisce a Firenze e poi a Siena, per apprendere l’uso del toscano che, per lui piemontese e perciò familiare all’uso del suo dialetto e del francese, era stata una lingua morta imparata sui libri. Egli ripercorse il suo cammino formativo in un’autobiografia intitolata Vita che cominciò a scrivere intorno al 1790 (l’autobiografia era un genere di moda nel diciassettesimo secolo, valgano gli esempi delle “Mémoires” di Goldoni o delle “Memorie” del Casanova), anche se quest’opera non va considerata come una “riscrittura” a posteriori delle propria esperienza esistenziale, dove quindi la realtà viene a volte forzata per conformarsi al pensiero dell’Alfieri ormai poeta maturo. Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione delle “Satire”, di sei commedie, della seconda parte della “Vita” e di traduzioni dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli 54 anni, muore a Firenze il giorno 8 ottobre, assistito da Luisa Stolberg. La salma si trova nella chiesa di Santa Croce a Firenze
Teresa Anania
Fonte biografica: www.biografieonline.it