Le parole sono pietre. Riflessioni letterarie

Oggi affronto il tema, non facile, delle parole. Le parole sono pietre, disse Camilleri, ed è vero, quale affermazione è più consona a questo tema. Pensate: basta un sì, o un no, per condizionare il pensiero, un fatto, un’esistenza. Per questo è necessario essere saggi e pensare prima di parlare, perché le parole, una volta fuggite dalla nostra bocca o dalla nostra penna restano vive e raggiungono la sfera emozionale degli altri, condizionando appunto la sfera personale, quell’intimo io che c’è dentro di noi.
Il dibattito sulle parole è molto attivo nel campo letterario, per ovvi motivi, al quale dedico la prima parte di questi miei pensieri. Scrivere è un mezzo di comunicare, il più incisivo, perché le parole sono lì, pronte per essere rilette all’infinito. In una narrazione, di qualunque genere, l’autore passa la maggior parte del suo tempo a pensare come inserire le parole nel testo al fine di ottenere la più fedele ed efficace interpretazione del suo pensiero. Sì, perché, come dicevo, bisogna pensare prima di scrivere, come bisogna pensare prima di parlare. Questa è saggezza che un autore, nella sua sensibilità di artista delle parole, ha per sua natura.
Come dicevo, una sola parola può essere determinante per esplicitare un ampio concetto, sia essa un avverbio, un aggettivo, un verbo. E quella parola, posta lì, al punto giusto, può emozionare, commuovere, ma anche illudere, deludere e impaurire. E mentre nella prosa abbiamo una struttura narrativa complessa che può licenziare certi termini, perché inseriti in un contesto ampio, nella poesia questo non è permesso.
Il poeta, scrivendo, avverte ancor di più rispetto a uno scrittore quella responsabilità nello scrivere. Perché nella poesia la parola è un soffio che codifica un’emozione, un messaggio, un sentimento. E la poesia più è breve, più è posta in risalto la maestria del poeta, capace con poche parole anche di trasmettere un messaggio immenso. L’Ermetismo del ‘900 è il massimo esempio di questo, basti pensare a Ungaretti. La poesia ermetica condensa in poche parole significati profondi, una vera magia che ha fatto di questa corrente letteraria una delle più importanti del secolo scorso.
Come dicevo, nella narrativa lo scrittore è più facilitato rispetto al poeta, ma è una facilitazione relativa.
Ma nel ‘900 abbiamo avuto esempi contrapposti all’Ermetismo, quale può essere stata l’opera dannunziana. D’Annunzio, prolifico scrittore e poeta, è l’opposto di Ungaretti. Infatti è evidente la sua tendenza ad abbondare nelle parole per esprimere vicende o anche un solo fatto. Ciò lo possiamo constatare nell’analisi del suo Piacere, connotato da ampollosità e, addirittura, ridondanze. Lo scrivere del D’Annunzio rispecchia indicibilmente il suo carattere egocentrico e megalomane, che lo portò a creare opere di barocca memoria.
Questo breve cenno va a dimostrare quanto le parole condizionino e quanto il loro uso diversificato abbia prodotto nel tempo correnti letterarie e di pensiero differenti.
Abbandonando l’analisi del tema delle parole in ambito letterario, vorrei fare un breve cenno a quanto le parole pesino nella comunicazione di tutti i giorni e in particolar modo nell’informazione.
Nell’informazione, le parole sono pesanti, dei macigni, hanno una potenza che riescono a condizionare addirittura la vita degli individui. E se in letteratura l’effetto delle parole è progressivo e silenzioso, in quanto è una comunicazione non informativa, ma volta a soddisfare una determinata parte emozionale di noi stessi – parlo della narrativa e della poesia, s’intende – l’effetto delle parole nell’informazione ha un carattere di onda d’urto che colpisce i centri emozionali più reattivi, causando, ai limiti estremi, delle emozioni di angoscia e paura. Quanto più è immediata l’informazione, più i nostri centri emozionali reagiscono con altrettanta immediatezza. Quindi più l’informazione sarà forte perché riguardante un pericolo sociale, per esempio, più noi opinione pubblica saremo devastati da emozioni di angoscia o paura. Per questo si generano le psicosi collettive, come è successo, per esempio per l’11 settembre e ora per il coronavirus. Per fatti del genere, che coinvolgono l’intera compagine sociale, è essenziale che chi è deputato a dare le notizie sappia gestirle affinché le parole, appunto, non diventino macigni. Sfortunatamente questa gestione è quasi sempre poco oculata e allora l’informazione travolge, disorienta, terrorizza. Purtroppo non tutti sono in grado di effettuare un’analisi delle informazioni, che peraltro non vanno mai in un unico senso, e il risultato in generale è quasi sempre devastante. Chi dà le notizie dovrebbe sempre tenere presente il buon senso, quella saggezza di cui parlavo prima. Nella nostra epoca, tra l’altro, si è aggiunto un altro canale, che non è filtrato da alcun ufficio stampa: quello dei social-media, in cui è colui che genera il fatto che diventerà notizia che dà la notizia. In questo caso l’informazione è ancor più d’impatto e può generare angosce e paure ancor più forti, aumentando il senso di disagio e preoccupazione dell’opinione pubblica.
Quindi le parole sono pietre, ripeto. Questo è un monito a chi le adopera in modo inappropriato, affinché riveda le istruzioni per l’uso, urgentemente.

Giovanni Margarone