Vittorio Schiraldi è nostro ospite in un’intervista intensa, ci racconta una generazione inquieta, offre diversi spunti di riflessione sul suo romanzo verità o come dice lui stesso ” un romanzo con molte verità”.
Un romanzo sulla genitorialità. Il difficile gap generazionale tra genitori e figli, quando in una famiglia bene: madre biologa, padre sceneggiatore, entra la droga.
Un libro sui lessici familiari, il detto e il non detto delle relazioni, in una Roma che vive le tensioni del sequestro Moro, nel 1978, e poi la scoperta dell’Aids, negli anni Ottanta, in una continua interrogazione sul senso
Vittorio Schiraldi Vive e lavora a Roma. Tra i principali scrittori italiani, ha pubblicato diversi libri di successo, alcuni divenuti ben presto bestseller. Scrive per il teatro ma ha lavorato per il cinema come soggettista, sceneggiatore e regista, e per la TV come autore. Per anni ha condotto dai microfoni di Radio 1 Rai una serie di trasmissioni come opinionista e attento osservatore delle trasformazioni della realtà e del costume diventando una delle voci più familiari per i radioascoltatori. Sempre per Radio 1 Rai, attualmente conduce la domenica dopo la mezzanotte il programma “Ciò che resta del giorno”.
Buongiorno Vittorio, è un grande piacere averti qui con noi.
Lascia fare al destino è un libro dedicato prima di tutto alla genitorialità ed al gap generazionale che divide genitori e figli. Come è nato?
«Questo romanzo mi ha coinvolto in modo particolare perché Simone, il giovane tossicodipendente, che viene da una agiata famiglia borghese e ha una tenera e disperata storia d’amore con Ilaria, figlia del protagonista, non è un personaggio inventato. Simone è stato come un figlio per me. Lo incontrai alcuni anni addietro. Avevo deciso di scrivere un romanzo per raccontare il percorso di uno dei tanti giovani che finiscono per drogarsi e di cui spesso non sappiamo quasi niente, se non quando improvvisamente la loro storia affiora e si conclude con poche righe in cronaca, quando vengono trovati con l’ago di una siringa piantato in vena».
Una famiglia si stravolge completamente quando dalla porta principale attraverso una figlia entra prepotentemente la droga. Come può un genitore affrontare questo dramma?
«Non credo di avere una ricetta in proposito. Io ho cercato di raccontare come un tale dramma viene vissuto nella famiglia del protagonista, alterandone la serenità, gli interessi e gli scopi di vita. Per documentarmi, ho iniziato una serie di ricerche e colloqui, frequentando Centri di recupero per tossicodipendenti ma anche esperti, genitori e giovani quotidianamente in fila davanti a un Sert di Roma per procurarsi una dose di metadone. Fu lì che incontrai Simone e di lui mi colpì subito l’atteggiamento riservato e cortese che denunciava la buona educazione ricevuta».
Proprio Simone è un ragazzo che cerca di lasciare la droga per realizzare un suo grande sogno: scrivere un libro. Può un sogno salvare un ragazzo con un forte mal di vivere?
«Con Simone è quello che stava accadendo, nel momento in cui avevo intuito che lui poteva credere in un sogno, in un progetto di vita. All’inizio lo spinsi a parlare delle sue esperienze, anche se appariva riluttante. La sua ritrosia però venne meno quando seppe che ero uno scrittore. Da quel momento cominciammo a frequentarci. Lui mi parlava dei suoi viaggi in Thailandia, inseguendo la droga pura al novanta per cento e, un giorno, dopo avere ascoltato il racconto delle sue bravate, quando con quelli della Curva sud, romanisti come lui, inseguiva la squadra del cuore in trasferta, devastando treni e bruciando carrozze, esaltati dalla droga, gli ho domandato come mai non avesse mai provato a mettere su carta quelle esperienze. Fu allora che, vincendo la sua naturale timidezza, Simone cominciò a farmi leggere alcune pagine del suo diario e poi mi confidò che il suo sogno, appunto, sarebbe stato quello di diventare uno scrittore. La speranza era che proprio quel sogno lo strappasse dalla droga».
Che impressione ha ricavato dalla lettura?
«Leggendo quei racconti mi resi conto che c‘era del talento in lui. Decisi quindi che avrei cercato di trasformare il suo sogno in un progetto di vita. Speravo così che, in tal modo, forse sarei riuscito, come del resto avvenne, a sottrarlo alle sue suggestioni autodistruttive e quindi a rinunciare alla droga. Insomma, lo convinsi a fare ciò che aveva sempre desiderato senza però trovare i necessari stimoli, ossia scrivere il romanzo della sua vita di randagio, rinunciando all’eroina per credere finalmente in sé stesso e guardare con fiducia al futuro. Così mi buttai in quella battaglia con la speranza di riuscire a vincerla».
Qual è stato il vostro rapporto?
«Tra noi si sviluppò un rapporto come tra padre e figlio, un rapporto che divenne sempre più intenso e assiduo. Lui scriveva il suo romanzo con grande fatica ma io lo esortavo a continuare perché scrivere lo stava lentamente trasformando. Simone ha frequentato la mia famiglia per un paio d’anni, mentre andava avanti il suo romanzo, poi è arrivata la tragica e inaspettata scoperta dell’Hiv che l’ha schiantato, quando meno se l’aspettava, proprio quando era riuscito a scrivere l’ultima pagina del suo romanzo. Improvvisamente ha scoperto di avere i giorni contati, giorni sempre più disperati che, in parte, ho vissuto accanto a lui, in una stanzetta dell’ospedale Gemelli di Roma».
La morte di Simone ha cambiato il progetto di scrittura di Lascia fare il destino?
«In realtà, la sua scomparsa fu un duro colpo anche per me e a quel punto pensai che non avesse più alcun senso scrivere il mio romanzo, ora che quello di Simone non avrebbe mai visto la luce. Sono passati alcuni anni e poi un giorno ho trovato alcuni dei suoi appunti, qualche lettera, qualche pagina del suo diario e, allora, mi sono fatto forza. Ho deciso che la sua storia andava comunque raccontata. È nato così, “Lascia fare al destino”».
Ilaria e Ruben: la prima figlia acquisita, il secondo figlio di Mario. I due ragazzi sono assolutamente agli antipodi; la prima vive la sua vita sbandata senza voler realmente salvarsi, il secondo va a studiare a New York perché molto ambizioso. Come spiega che questi due ragazzi così diversi siano stati educati dagli stessi genitori, convivendo nella stessa famiglia?
«Non è un problema di educazione ma di DNA. Uno può nascere biondo e un altro bruno; uno può nascere ottimista e un altro pessimista. Accade molto di più quanto si pensi».
Il suo romanzo potrebbe essere definito un libro verità?
«Diciamo che è un romanzo con molte verità».
Un romanzo come “Lascia fare al destino” non può essere solo una lettura, ti mette davanti a te stesso come genitore e come figlio. Lei, scrivendolo, che reazione intendeva suscitare nel lettore?
«Consapevolezza. Consapevolezza delle sofferenze che molti genitori di un figlio tossicodipendente vivono nel silenzio e consapevolezza del dolore che un figlio può recare ai genitori quando non fa nulla per uscire dal quel buio/tunnel».
Ha nuovi progetti in cantiere?
«Certamente ma ne parleremo al momento opportuno».
Ringraziamo Vittorio Schiraldi per la sua disponibilità.
Elisa Santucci