Leggenda e origini del bacio sotto al vischio

La tradizione pagana del bacio sotto al vischio, è connessa ad una leggenda proveniente dal Nord Europa, e precisamente alla mitologia germano-scandinava

Vi siete mai chiesti perché tra le decorazioni delle festività natalizie troviamo il vischio? E perché vi sia l’usanza di baciarsi sotto al vischio, lo sapete?…    In quasi tutte le case è uso comune appendere il vischio sulle porte come simbolo di buona fortuna per l’anno che sta per entrare, ma così come per la maggior parte degli usi e costumi tradizionali, facciamo le cose “per partito preso”, “perché si usa”, “perché si è sempre fatto così”, “perché porta bene”, ma difficilmente ci si sofferma a chiedersene la motivazione.  Volete saperne di più?  Continuate a leggere…..

La tradizione pagana del bacio sotto al vischio, è connessa ad una leggenda proveniente dal Nord Europa, e precisamente alla mitologia germano-scandinava, ma procediamo per ordine.

Il vischio era la pianta associata alla Dea anglosassone Freya, protettrice dell’Amore e degli innamorati, sposa del Dio Odino. Freya e Odino ebbero due figli maschi: Loki e Baldur, due figli profondamente diversi; Baldur era amato da tutti, buono e di animo nobile; Loki era cattivo, invidioso e talmente geloso del fratello da volerlo vedere morto. Freya, capito l’intento di Loki di voler uccidere il fratello, chiese aiuto e protezione a tutti gli animali, alle piante e ai quattro elementi Acqua,Terra, Aria e Fuoco, dimenticandosi però di una sola pianta, il vischio. Loki lo scoprì, lo raccolse e dopo averne intrecciato i rami ricavandone un dardo appuntito, lo consegnò con l’inganno al Dio cieco dell’inverno che, scagliandolo con il suo arco colpì Baldur uccidendolo. Il dolore di Freya fu talmente grande che provò in ogni modo di ridare la vita al figlio ma nulla poté fare se non rassegnarsi agli eventi. Iniziò a piangere disperatamente ma quando le sue lacrime arrivarono a toccare il dardo di vischio, questo iniziò a riempirsi di bacche bianche e perlate che, magicamente, restituirono la vita a Baldur.  Freya ne fu talmente felice che iniziò a ringraziare chiunque passasse sotto l’albero su cui cresceva il vischio, con un bacio. Da quel momento in poi, divenuto uno dei segni di riconoscimento della Dea Freya, iniziò ad essere donato quale simbolo di protezione e buon auspicio e tradizione volle che chiunque si fosse scambiato un bacio sotto ai suoi arbusti, avrebbe goduto di buona fortuna. Fu anche chiamata “pianta dei baci”, divenendo altresì metafora della vita e dell’amore che tutto può, anche sconfiggere la morte.

I Druidi lo consideravano una pianta sacra e lo utilizzavano nei riti sacrificali, mentre per i Celti era in grado non solo di curare le malattie ma anche di proteggere da incantesimi, da fungere da antidoto ai veleni e addirittura schermare le case evitando le infestazioni di fantasmi.  Nella lingua celtica,  infatti, “vischio” significa “panacea”.  Era inoltre, l’emblema della resurrezione. Secondo le credenze di questa antica popolazione, il ciclo vitale del vischio si basava su tre elementi: colui che vince la morte, rappresentato dal vischio; un messaggero di vita, rappresentato da un uccello trasportatore e l’interazione divina tra questi due simboli che ne garantisca il potere di nascita e crescita, tutto ciò a rappresentanza della grande manifestazione divina sulla terra.  Anche per la raccolta del vischio i Celti utilizzavano un cerimoniale ben preciso.   Doveva essere raccolto il sesto giorno della luna crescente, utilizzando un panno bianco quale simbolo di purezza e per rinnovare la fedeltà nei confronti delle divinità venivano sacrificati dei tori giovani e bianchi.

In Boemia il vischio veniva anticamente chiamato “scopa dei tuoni” perché si credeva avesse il potere  di allontanare e proteggere dai fulmini.

Giovanni Pascoli dedicò a questa pianta una poesia, intitolandola appunto “Il Vischio” che fa parte della raccolta  “Primi Poemetti” pubblicata per la prima volta nel 1897:

IL VISCHIO 

Non ti ricordi più, dunque, i mattini
meravigliosi? Nuvole a’ nostri occhi,
rosee di peschi, bianche di susini,
parvero: un’aria pendula di fiocchi,
o bianchi o rosa, o l’uno e l’altro: meli,
floridi peri, gracili albicocchi.
Tale quell’orto ci apparì tra i veli
del nostro pianto, e tenne in sè riflessa
per giorni un’improvvisa alba dei cieli.
Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l’ape da’ suoi bugni uscita
pasceva già l’illusïone; ond’essa
fa, come io faccio, il miele di sua vita.

Una nube, una pioggia… a poco a poco
tornò l’inverno; e noi sentimmo chiusi,
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell’orto.
Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i pètali a terra. E su l’aurora
noi calpestammo le memorie vane
ognuna con la sua lagrima ancora.

Ricordi? Io dissi: “O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
della vita: la sua lieve fiorita
d’ali. La pianta che a’ suoi rami vede
i mille pomi sizïenti, addita
per terra i fiori che all’oblìo già diede…
Non però questa (io m’interruppi) questa

che non ha frutti ai rami e fiori al piede„
Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
tolto che foglie, nate per cadere.

Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
albero tristo, ch’hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, nè il fischio
del nembo che flagella aspro la vite…
ah! sono in te le radiche del vischio!

Qual vento d’odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t’inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
Tu non sapevi o non credevi: ei volle
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
E tu languivi; e la bellezza e il bene
t’uscìa di mente, nè pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de’ tuoi pomi e il profumo de’ tuoi fiori,
sono una perla pallida di muco.

Due anime in te sono, albero. Senti
più la lor pugna, quando mai t’affisi
nell’ozïoso mormorio dei venti?
Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de’ bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
e che d’amore abbrividiva ai voli
d’api villose, già sè stessa ignora.
Tu vivi l’altra, e sempre più t’involi
da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l’ombra straniera è già di te più forte,
più te. Sei tu, checchè gemmasti allora,
ch’ora distilli il glutine di morte.

*****

Teresa Anania

 

Pubblicato da Teresa Anania

Eccomi..... Sono Teresa Anania, e ho una passione sfrenata per i libri. Un amore iniziato ad otto anni e cresciuto nel tempo. Amo scrivere e riversare, nero su bianco, emozioni, sentimenti e pensieri concreti e astratti. La musica è la colonna sonora della mia vita. Ogni libro lascia traccia dentro di noi e con le recensioni, oltre a fornire informazioni "tecniche", si tenta di proiettare su chi le leggerà, le sensazioni e le emozioni suscitate. Beh..... ci provo! Spero di riuscire a farvi innamorare non solo dei libri ma della cultura in senso lato.

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