Editoriale dedicato alle 43 vittime del Ponte Morandi, scritto nei momenti dell’inaugurazione del nuovo Ponte San Giorgio.
Ero a Zara il 14 agosto 2018 e sulla città imperversava un violento temporale, nuvole nere minacciose erano basse su un mare grigio, i gabbiani erano ritirati verso terra. Il vento e la pioggia mi avevano costretto a ripararmi in un androne, sentivo un brivido, ma non capivo perché. A un certo punto, il telefono suonò, era la notifica di un messaggio di mia madre: “È crollato il Pontone!” mi scrisse. “Cosa??!!” le domandai scrivendo in fretta con le dita bagnate, mentre il temporale continuava. “Sì, è crollato, poco fa… il Pontone, con le macchine che passavano, un disastro!” mi rispose. Alzai gli occhi al cielo. Mi precipitai in un bar, mi sedetti al primo tavolino libero e iniziai a cercare notizie sul telefono. “Crollo del Ponte Morandi a Genova, alle 11,36 di oggi 14 agosto 2018, numerose vittime e feriti” (Ansa). Guardai l’orologio: erano da poco passate le 12,00. “Oddio!” esclamai. Mi venne l’istinto di chiamare mio fratello, che lavorando a Genova transitava tutti i giorni sul Ponte Morandi. “Ah, stai bene!” esclamai. “Sì, non sono andato a Genova oggi, perché avevo un problema con la bambina” mi disse. Feci un sospiro di sollievo, ma purtroppo altre persone erano passate in quel momento sul ponte e un brivido ripercorreva tutto il mio corpo, proprio quel brivido che avevo avvertito qualche manciata di minuti prima e che non capivo perché l’avessi.
Intanto il temporale era cessato e ritmicamente aprivo il telefono per leggere le notizie che si facevano sempre più gravi e particolareggiate: 24, poi 30 morti, tanti feriti e dispersi. Si avvertiva l’amaro sapore della tragedia. Apparivano le prime foto sfocate e grigie con cumuli di ferro e cemento del ponte collassato. Man mano che passava il tempo, le notizie della conta dei morti aumentava. Ero triste e scosso, pensavo alla mia terra ferita e a quel ponte maledetto. “Possibile che un ponte crolli così?” continuavo a pensare e non me ne davo pace. La forte emozione, l’angoscia mi portarono a scrivere un articolo per un blog al quale collaboravo al tempo. Lo scrissi appena tornato a Pag dove soggiornavo. Poche righe, ma dense, scritte con il cuore in gola, cercando di riportare le notizie, incorporandole nell’articolo.
Lo spedii dopo una veloce lettura, mentre a qualche centinaio di chilometri di distanza da me la macchina dei soccorsi si era messa in moto e sempre più chiara era la dimensione della tragedia.
Il Ponte Morandi, che io chiamavo affettuosamente “Il Pontone”, inaugurato nel 1967, orgoglio dell’ingegneria del tempo, opera che aveva risolto la viabilità genovese era crollato come un castello di carte in una piovosa vigilia di Ferragosto, inghiottendo vittime e provocando disperazione. Non so quante volte nella mia vita sia passato su quel ponte. Provenendo da Savona, la mia città, il Ponte Morandi era via obbligatoria per raggiungere Genova. Da piccolo ci passavo spesso perché i miei nonni abitavano a Genova. Ci passai anche il giorno precedente la disastrosa alluvione del 1970, perché i miei genitori mi avevano lasciato dai nonni e nessuno poteva prevedere quel disastro. Un’altra catastrofe che ha messo in ginocchio Genova, chiamata la Superba in passato, invece città fragile, intricata sebbene affascinante come una donna adagiata in riva al mare; città di poeti, navigatori, commercianti e gente di poche parole. Il secondo porto più importante del mediterraneo, città poliedrica e operosa, complessa, ma attraente, alla quale tutti i Liguri sono profondamente legati. E questa volta, l’ennesima, Genova si leccava le ferite, sconfitta e avvilita, piangendo quelle quarantatré anime, vittime di una morte assurda.
Il Ponte Morandi, imploso su se stesso, è il simbolo della fragilità e dell’imperfezione dell’uomo. Non siamo invincibili e ciò che facciamo è destinato a deteriorarsi se non a scomparire. Ciò che creiamo può essere sempre distrutto dall’incuria, dal tempo, dalla natura. Ci crediamo grandi, ma siamo solo un nugolo di formiche che vagano sulla faccia della terra, esposti a tutto e, talvolta, incapaci di difenderci. In ogni tragedia si piangono i morti e non conta se siano tanti o pochi, perché anche all’unica vittima è stato negato il diritto alla vita. La morte è beffarda, ci rincorre e al momento da lei deciso taglia quel filo che ci permette di vivere. Così è capitato alle vittime del Ponte Morandi che proprio oggi, il giorno dell’inaugurazione del Ponte San Giorgio, voglio commemorare affinché la loro morte non sia vana e faccia capire a chi ha funzioni di responsabilità, che talvolta le tragedie possono essere evitate e che l’imperizia umana non è mai giustificabile. L’uomo è imperfetto, ma deve sforzarsi sempre e comunque di evitare gli errori avvalendosi della sua intelligenza e del suo ingegno.
La tragedia del Ponte Morandi resterà una ferita profonda da rimarginare, per noi tutti, ma la ricostruzione di questo ponte è segno di speranza e rinascita, nonché un monito affinché tragedie del genere non accadano più.
Grazie.
Giovanni Margarone