TRA LETTERATURA E CINEMA : “STILL ALICE” dal romanzo di Lisa Genova al film con Julianne Moore.
Lei conosce sicuramente la storia delle due capre che stanno mangiando le bobine di un film tratto da un best-seller e una capra dice all’altra: «Personalmente preferisco il libro».
[Alfred Hitchcock in: François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock. Il saggiatore, 2014.]
Coloro che, come me, amano sia la letteratura che il cinema, vivono in questi anni una stagione particolarmente felice, per la incredibile diffusione di opere cinematografiche e televisive tratte da romanzi più o meno famosi.
Il cinema infatti è nato essenzialmente con l’intento di raccontare storie: agli esordi ha tratto ispirazione proprio dalla letteratura e solo più recentemente la “settima forma dell’arte”, come viene appunto chiamato il cinema, è divenuta sinonimo di intrattenimento con sceneggiature indipendenti da fonti letterarie di ispirazione.
Inizialmente il ruolo degli sceneggiatori è stato svolto da scrittori professionisti, ideando storie dalle quali trarre i soggetti dei film o utilizzando romanzi, il più delle volte poco noti, per trasformarli in film, come nel caso della pellicola “Le parole che non ti ho detto” tratto dal romanzo di Nicolas Sparks, interpretata da un emozionante Kevin Costner.
Capita poi che, da un romanzo dall’imprinting scientifico, molto lontano sia dall’intento romantico, nel senso letterario del termine, che da quello dell’intrattenimento, nasca un film capace di coniugare poesia e realismo: è il caso di “Still Alice”, scritto da Lisa Genova e interpretato, nell’omonimo film, da Julianne Moore.
Lisa Genova è una neuropsichiatra americana che ha dedicato la sua vita alle malattie degenerative del cervello, in particolare l’Alzheimer, affrontando questa complessa patologia non solo dal punto di vista strettamente scientifico ma anche da quello umano e sociale. L’esigenza di dare spazio alla testimonianza, oltre che al rigore scientifico, l’ha spinta ad auto-pubblicare il suo primo romanzo, appunto “Still Alice”, distribuendolo addirittura con il sistema del “porta a porta”, finché un grande editore americano ne ha colto il valore del messaggio.
La Genova racconta la storia di una donna, Alice, una come tante, divisa fra un lavoro che la appassiona, un marito che ama e con il quale condivide la passione per la ricerca, essendo entrambi docenti universitari e tre figli ormai grandi che, come ogni madre, lei vorrebbe proteggere, intromettendosi involontariamente nelle loro scelte di vita.
Alice è una psicolinguista e la parola è il suo terzo braccio, il suo modo di entrare in relazione col mondo: quando si accorge che le parole accennano a tradirla, che espressioni ripetute un numero infinito di volte incominciano a scomparire dalla sua mente intuisce, da scienziata, che qualcosa non va.
La scoperta di avere una forma precoce di Alzheimer rappresenta il giro di boa che cambia, anzi “resetta” tutta la sua vita: la sua elegante padronanza delle situazioni, la sua ferrea determinazione nel perseguimento degli obiettivi lasciano inesorabilmente il posto a un’esistenza dove una nebbia sempre più fitta avvolge la sua mente.
La narrazione di Lisa Genova è davvero incredibile, capace di coniugare l’evidenza scientifica delle sue competenze con la complessità delle emozioni che la protagonista Alice, ma soprattutto chi le sta attorno, sentono nascere giorno dopo giorno dinnanzi all’evoluzione della malattia.
“Mamma che effetto fa?”
“Che effetto fa cosa?”
“Avere l’Alzheimer. In questo momento senti di averlo?”
“…So che in questo momento non sono confusa e non mi sto ripetendo ma solo pochi minuti fa non mi veniva in mente “crema di formaggio” e non riuscivo a partecipare alla conversazione con te e tuo padre. So che è solo questione di tempo prima che mi succeda di nuovo e gli intervalli tra i singoli episodi di questo genere diventano sempre più brevi. Mentre i problemi che incontro diventano sempre più grandi. Anche quando mi sento del tutto normale so di non esserlo. Non è passato, è solo una tregua. Non mi fido di me” .
“Questo somiglia a una tortura, mamma”.
“Still Alice” diventa un film nel 2014, interpretato da una straordinaria Julianne Moore diretto da due registi molto particolari come Richard Glatzer e Wash Westmoreland: conquista Oscar e Golden Globe e porta alla ribalta il romanzo stesso che viene “scoperto” sia da addetti ai lavori e da semplici amanti della lettura.
Il mio interesse per la psicologia mi ha portato a leggere prima il romanzo e solo successivamente a vedere il film: alla conclusione di queste esperienze, entrambe di grande intensità, una folla di domande ha incominciato a dare corpo alle tantissime emozioni suscitate da esse.
Fra le tante, almeno alcune vorrei condividerle con voi, con l’intento di un confronto che sia trasversale fra l’ambito artistico e quello umano: il primo interrogativo riguarda quanto il lavoro letterario di Lisa Genova, con la sua capacità di arricchire la problematica puramente scientifica dell’insorgere di una malattia così grave, peraltro in una persona giovane, con la narrazione dell’impatto psicologico, umano e anche sociale che tale vicenda determina, abbia contribuito a rendere il film un’opera da Oscar.
E poi, inevitabilmente, quale delle due espressioni artistiche possa considerarsi la più efficace per il messaggio che trasmette la storia di Alice Howland.
Per rispondere al primo interrogativo, credo bisogna chiedersi cosa rappresenti la malattia e, in particolare, la paura di una malattia come l’Alzheimer, nella nostra società.
Il mondo in cui viviamo si fonda sul mito della perfezione, estetica e non solo: dobbiamo essere tutti veloci, perspicaci, iperattivi e non ci è concesso di fermarci neppure un attimo perché qualcuno potrebbe prendere il nostro posto e i nostri risultati potrebbero essere messi in discussione da parte da chiunque sia “più” rispetto a noi.
In un mondo regolato da tali “valori” assistiamo, paradossalmente, alla diffusione, in misura sempre più allarmante, di una malattia degenerativa dei neuroni che, mentre prima era appannaggio degli anziani, adesso aggredisce anche i giovani: una malattia che rende l’uomo sempre più lento e indifeso.
La capacità di Lisa Genova di mettere in luce quanto una patologia che svuota l’essere umano di ogni anelito e di ogni volontà, rendendolo progressivamente solo “un involucro”, possa stridere con il nostro rincorrere il mito di una esistenza perfetta, in termini di efficienza e di immagine, come quella che la protagonista aveva prima di essere colpita dall’Alzheimer è, a mio avviso, il valore aggiunto che ha consentito ai due sceneggiatori e registi di rappresentare sullo schermo il senso di irrazionalità e di caducità della vita stessa di cui questa malattia sembra essere il simbolo.
Il secondo quesito ci porta agli obiettivi che le due diverse forme artistiche si pongono: da un lato la letteratura, con la sua potenzialità intrinseca di descrivere in modo più minuzioso e più profondo stati d’animo e situazioni, consente di entrare maggiormente in empatia con i personaggi e con le loro vicende; dall’altro il cinema, con la sua capacità di fissare nei nostri occhi le immagini delle storie rappresentate e, attraverso le musiche, di suscitare un impatto emozionale in grado di determinare una profonda risonanza dentro di noi.
Potremmo affermare che se la letteratura ci sussurra le emozioni, il cinema ci conduce dentro le vicende!
Leggere il romanzo scritto dalla Genova è stato dunque un viaggio, insieme alla protagonista, dalla piena libertà fino all’assenza totale di libertà, ascoltando i suoi dialoghi interiori, ma la visione del film ha avuto la forza rivelatrice, soprattutto attraverso l’interazione dei personaggi, di farmi comprendere il ruolo essenziale svolto dalla terapia dell’amore nel doloroso cammino involutivo verso il progressivo distacco dalla realtà, al quale l’Alzheimer condanna ogni persona ammalata.
Rita Scarpelli