Boemia – il popolo scomparso, Dario Colombo. Minerva edizioni.
“Non chiedere chi ha vinto: non ha vinto nessuno. Non chiedere chi ha perso: non ha perso nessuno. Non chiedere a cosa ha servito: non ha servito a nulla. Fuorché ad eliminare cinquemila creature fra i diciotto e i trent’anni.”
Oriana Fallaci
Tra gli innumerevoli episodi nefasti che possono capitare al genere umano, la guerra resta quello il più oltraggioso nei confronti della società intera. La guerra devasta, cuori e territori; distrugge, vite e futuro; modifica gli assetti, geografici e mentali. La guerra affama, sgretola, annienta, degrada, offende. La guerra, di fatto, è inutile, perversa, aberrante. Eppure, nonostante tutto, pare che l’essere umano non riesca a fare a meno dei conflitti, che durante il corso dei secoli si sono succeduti incessanti, provocando morti, distruzioni, povertà. E tanti, tantissimi esodi, che hanno visto milioni di persone costrette a lasciare tutto pur di avere almeno salva la vita. Intere esistenze che perdono la loro essenza per la brama di potere, per la conquista di nuovi territori, per la ricerca ossessiva di predominio. E basta poco per scatenare guerre di portata mondiale…
“Il 28 giugno di quel maledetto 1914, la notizia dell’attentato di Sarajevo e la morte del l’erede al trono Francesco Ferdinando. Per un mese era stato un rincorrersi di notizie e di vaghe smentite su un’imminente guerra con la Serbia finché, il 28 luglio, con il solenne proclama: “Ai miei popoli!” il vecchio imperatore aveva dichiarato ufficialmente la guerra alla Serbia che era diventata subito anche guerra alla Russia.”
La storia ci insegna che i conflitti non sono mai rapidi, e che spesso tendono ad estendersi come macchie d’olio. E bene presto, anche l’Italia si trova coinvolta in quella che passerà agli annali come la “Grande Guerra”. Un manifesto con il timbro dell’Imperial Regio Capitanato distrettuale di Riva ritrovato attaccato al portone della canonica conferma i timori di don Vigilio e tutto ciò che l’intera popolazione di quei luoghi aveva sempre ritenuto impossibile, sta per tramutarsi in una orribile, atroce realtà.
“Entro domani mattina alle otto tutto il paese deve trovarsi alla stazione dei treni giù a Riva. Lasciare libere le bestie, lasciare aperte le porte delle case, portarsi solo una posata, una coperta e un po’ di cibo. Tutto il resto dovrà essere abbandonato. Chi si rifiuta verrà preso in custodia dai gendarmi.”
Il paese è in subbuglio. Angoscia, timore, preoccupazione investono l’anima di ogni singolo abitante. Ma non c’è molto da fare: l’ordine è perentorio. Tutti devono lasciare tutto, e dirigersi, con strazio e inquietudine, verso l’ignoto, stipati in maniera disumana in un carro bestiame…
“Avevano iniziato gli anziani, ancor prima che il treno si avviasse; poi i bambini e infine anche le donne avevano dovuto arrendersi alle naturali necessità, realizzando con orrore misto a incredulità e pudore che niente e nessuno li avrebbe separati in quei momenti dal resto del vagone. Solo due grossi sacchi, posti alle estremità opposte del carro, avrebbero dovuto servire alla bisogna; e nemmeno i due teli provvidenziali stesi con lo spago per creare una parvenza di intimità avevano impedito a tutti quei poveri viaggiatori di sentire violata la propria riservatezza, quel pudore tramandato da generazioni che nemmeno nei sogni più tragici avrebbero pensato di veder calpestato in quel modo. Ma i due teli non potevano impedire, in quella gabbia sulle rotaie, che il lezzo ammorbante si diffondesse in breve nel vagone penetrando negli abiti, nei capelli, nelle povere sacche da viaggio, né l’esiguo refolo d’aria che soffiava dell’unico spioncino aperto poteva certo lenire quella sofferenza. Ogniqualvolta il treno si fermava nel cuore della notte, allorquando c’era la certezza che non ci fossero gendarmi sui binari, un paio di anziani tra i meno esausti si risolvevano a gettare il contenuto dei secchi fuori dal pertugio; ma non bastava certo quel gesto per liberare dai miasmi l’aria all’interno del vagone. Né, ovviamente, c’era acqua per lavarsi, e a quello degli escrementi si aggiungeva così l’odore acre e pungente degli abiti intrisi di sudore, di pioggia, di paura. Paura, si, che aveva a poco a poco preso il posto dell’incredulità per quanto stava loro accadendo, e aveva anch’essa un suo afrore ben definito…”
Questo grande esodo, increscioso e assurdo, vede protagonisti bambini, anziani e donne. Gli uomini, giovani, forti e robusti, sono al fronte, a combattere contro il nemico, si, ma la loro battaglia è anche contro la paura, il freddo, la fame, la sete, le marce infinite, i topi, il sudiciume e l’orrore che tutti i giorni, in qualsiasi momento, li investe senza pietà e senza tregua. E i profughi, perché così sono ritenuti, una volta giunti alla loro destinazione finale, si ritrovano disorientati e confusi: non conoscono la lingua, le abitudini, i luoghi, così diverse dalle rassicuranti vallate del sud Tirolo da cui provengono. Saranno don Vigilio e Cecilia, giovane e intraprendente maestra, a trovare una soluzione che possa loro garantire una sopravvivenza decorosa e un’integrazione in quella Boemia che fa fatica ad accettarli.
“Prima che l’esasperazione dei profughi sparsi un po’ dovunque nei villaggi e nelle città attorno a Praga si trasformasse in pericolosa ribellione, bisognava dare un lavoro a tutti, dargli la possibilità di rifornirsi di cibo, legna, vestiti e, soprattutto, di essere alloggiati in maniera decorosa (…). A quel punto aveva donne disponibili a lavorare nei campi, altre per lavoro di taglio e cucito, altre ancora per le pulizie nelle case o per accudire bambini. Persino qualche anziano, tra quelli più in salute, si era reso disponibile per piccoli lavori di falegnameria, di fabbro, di ciabattino (…). Nessuno avrebbe potuto pensare che i profughi del Tirolo, in particolare le donne, volessero essere mantenuti senza lavorare.”
Le donne… Nel corso della storia hanno spesso saputo fare una differenza significativa. Hanno saputo reinventarsi, trovare soluzioni pratiche ai problemi del quotidiano, hanno agito con determinazione sperando e attendendo i loro uomini, mariti, fidanzati, fratelli, che tornassero a casa, salvi, desiderosi di riprendere quell’esistenza frantumata esattamente nel punto in cui l’avevano lasciata. Ma quali pensieri e quali meccanismi mentali si vanno a insinuare effettivamente nelle teste e nei cuori di chi si allontana per anni? E di chi resta? Dopo tanto resistere, non è raro trovarsi di fronte alla fragilità umana, e non è insolito rivalutare determinate condizioni, che possono cambiare, anche inaspettatamente, e disgregarsi, sciogliendosi come neve al sole…
“Ma in questo silenzioso cammino verso l’incontro che avrebbe dovuto restituire loro la vita di un tempo, c’era anche chi, tra quelle donne, si poneva domande diverse. Che non erano solo quelle per cercare di capire cosa avrebbero desiderato gli uomini di ritorno. Andavano oltre, andavano più a fondo. Gli uomini tornavano: ma che uomini sarebbero stati quelli che arrivavano dopo oltre due anni di guerra? Sarebbero stati gli stessi che avevano accompagnato in quel lontano agosto del 1914 verso le tradotte dirette al fronte? Chi avrebbe saputo dire, tra di loro, quanto li avevano cambiati le migliaia di bombe, gli assalti all’arma bianca, l’odore del sangue, la quotidiana convivenza con la morte? E la fame, la sete, le notti passate all’aperto, il gelo inimmaginabile di quelle terre lontane? E sarebbero state solo ferite della mente o si sarebbero trovate davanti anche uomini mutilati da schegge, sciabolate, colpi di mitraglia?
E c’erano poi quelle, poche per la verità, che nel silenzio delle loro povere abitazioni aspettavano con angoscia l’inatteso ritorno. Perché il marito, per loro, non era stato il compagno dolce e premuroso che avevano sognato il giorno del matrimonio. Era stato violento, insensibile, duro. E adesso tornava. Adesso che la Boemia aveva rivelato loro che potevano farcela da sole ad allevare i figli, a guadagnarsi di che vivere, a uscire a testa alta di casa e a ritrovare la gioia di vivere. Perché li avevano fatti tornare?”
Ho letto questo libro tutto d’un fiato. E mi sono emozionata, tanto. Ripercorrere alcuni frammenti della nostra storia risalente a oltre un secolo fa, ha fatto sì che, come una molla, una moltitudine di sentimenti scattassero in me, prepotenti, forti, inarrestabili. Le guerre, da sempre, rappresentano il peggior cancro dell’intera umanità. Il male infimo, che in ogni caso appartiene a tutti gli individui, lievita in maniera esponenziale soprattutto nei periodi di belligeranza, ed esplode come un enorme pus che infetta qualsiasi cosa trovi alla sua portata. Eppure, non di rado, dalle crepe della sofferenza, può spuntare, timidamente, un nuovo fiore dell’amore, che, come un’edera, si attacca alle pareti della speranza, tentando di farsi strada attraverso ostacoli insidiosi. E le descrizioni dell’autore sono perfette e incisive: c’è diffidenza e solidarietà, terrore e fiducia, panico e cameratismo, incertezza e ottimismo, disperazione e voglia di vivere. E c’è l’opportunità di comprendere gli enormi e incalcolabili sacrifici che hanno fatto i nostri avi, per garantirci oggi, quella libertà e quella dignità che non è scontata. Una lettura straordinaria, intrisa di infinite emozioni, che mette a nudo l’essenza dell’uomo, tutta, soprattutto in quei periodi bui che solo le guerre sanno creare.
“Maledetta guerra, pensò ancora una volta chiudendo la busta, fatta apposta per colpire la povera gente. Che mandava a morire i suoi giovani migliori. Che privava la gente semplice come loro del bene più grande che avevano: i sogni, le speranze per un avvenire migliore, il desiderio di una vita serena in cui gli affetti della famiglia, la pace dei propri monti, il succedersi delle stagioni venivano prima di ogni altra cosa.”
23 maggio 1915. Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, le popolazioni di lingua italiana dell’allora Impero Austroungarico che abitavano lungo il confine (trentini, veneti, friulani) senza preavviso furono costrette ad abbandonare case, campi e ogni loro avere, caricate su carri bestiame ed “esodate” dopo un viaggio inenarrabile nelle regioni dell’impero lontane dal fronte: Bassa Austria, Moravia e soprattutto Boemia, l’attuale Repubblica Ceca. Un evento che ha riguardato quasi centomila persone — in gran parte donne, anziani e bambini, mentre gli uomini combattevano al fronte — di cui non c’è traccia nei libri di storia. Dopo un impatto traumatico con le popolazioni locali, inizia un lento percorso d’integrazione che lascerà una ricca eredità di amicizie, forti legami, in qualche caso anche matrimoni, che sopravvivranno per generazioni fino ai giorni nostri. Il romanzo rivive la straordinaria avventura di queste genti attraverso le vicende di un gruppo di donne, guidate dalle figure — realmente esistite — di una maestra e di un parroco. Attingendo a un imponente archivio di lettere, diari e documenti ufficiali, il racconto dipinge uno spaccato inedito di un dramma inimmaginabile, per certi versi assimilabile a quelli odierni. Un percorso d’integrazione e di emancipazione della figura femminile che, costretta dagli eventi, deve rivestire tutti i ruoli: capofamiglia, lavoratrice, amministratrice e madre. “Boemia” è anche la celebrazione di forti legami tra popoli diversi, che anticipano quella che sarebbe diventata, cinquant’anni più tardi, la futura Europa.
Dario Colombo, giornalista metà lombardo e metà trentino, per oltre 40 anni ha lavorato per i principali periodici, quotidiani, radio e televisioni nazionali. Ha diretto la testata giornalistica di “Tele+” (oggi SKY). Grande appassionato di montagna e di storia della Prima guerra mondiale, è autore su questo argomento di numerosi libri, documentari, lavori teatrali e rievocazioni storiche. Boemia è il suo primo romanzo.
Autore: Dario Colombo
Editore: Minerva Edizioni (Bologna)
Collana: Egida
Anno edizione: 2023
In commercio dal: 10 maggio 2023
Pagine: 358 p., Brossura
EAN: 9788833245454
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