Per la rubrica ” A spasso nella storia con Fabiana”, oggi parleremo di Mastro Titta : il famoso boia capitolino.
C’è stato un periodo in cui lo Stato Pontificio è stato soggetto a papi che detenevano sia il potere temporale che quello spirituale. Una condizione che terminò con la presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, episodio del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Avvenuta il 20 settembre 1870, decretò la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale della Chiesa.
Nel periodo della sovranità pontificia, lo status delle popolazioni non era certo tra le migliori: c’erano soprusi di ogni genere, gabelle, torture, pene capitali; queste ultime venivano eseguite prevalentemente in pubbliche piazze, come monito per tutta la cittadinanza, presente al momento delle esecuzioni. Esisteva una figura specifica che si occupava di eseguire le condanne a morte, un vero e proprio funzionario di stato al quale era stato assegnato questo compito: il boia. Il più noto è stato indubbiamente Giambattista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta. Nato a Roma nel 1779, il carnefice di Sua Santità iniziò giovanissimo la sua carriera di “amministratore di morte”: risulta infatti che il “maestro di giustizie” (da cui il termine Mastro, mentre Titta è un diminutivo del suo nome, ed è noto anche come “er Boja de Roma”), a soli 17 anni eseguì la sua prima esecuzione, (testimonianza che si trova negli archivi storici), a Foligno, impiccando e squartando un certo Nicola Gentilucci.
Il suo incarico terminò nel 1864, alla veneranda età di 85 anni, ritirandosi in pensione e vivendo con i 30 scudi mensili concessi da Pio IX per ricompensarlo dei suoi servizi. Aveva uno stipendio di 15 scudi al mese, oltre l’alloggio e un sussidio, sempre mensile, di 5 scudi, poi convertito in gratifica di 20 scudi a Natale, Pasqua e Ferragosto.
Ufficialmente il suo mestiere era quello di verniciatore di ombrelli, ma in realtà il boia dello Stato Pontificio raggiunse ben 514 esecuzioni, anche se sul suo taccuino, che Bugatti aggiornava con scrupolo e accuratezza, ne furono annotati 516: dal conto vengono sottratti due condannati, uno perché fucilato, l’altro perché impiccato e squartato dal suo aiutante. Il boia annotava tutto: processi, vittime, moventi, assassini, soffermandosi anche su particolari cruenti e raccapriccianti. E nonostante Mastro Titta facesse un lavoro orrendo, operava con distacco e freddezza, quasi a voler sottolineare la sua professionalità. Addirittura si dice che fosse solito offrire ai condannati un’ultima presa di tabacco o un ultimo sorso di vino. Le pene inflitte ai colpevoli comprendevano l’impiccagione, il mazzolamento ( l’uccisione con un preciso colpo di mazza), la decapitazione con la ghigliottina (prima della Rivoluzione Francese si usava un semplice colpo d’ascia), e lo squartamento; quest’ultima pena veniva inflitta a coloro che si erano macchiati di crimini particolarmente gravi ed efferati, come l’omicidio di un prelato, ed era praticata post mortem, con successiva affissione dei quarti smembrati ai quattro angoli del patibolo. È stato accertato che le esecuzioni pubbliche fossero particolarmente gradite dal popolo, tanto che in quelle occasioni partecipavano anche giovani fanciulli e, nel momento in cui cadeva la lama o l’impiccato rimaneva appeso, era abitudine dar loro un sonoro schiaffo, per imprimere nella mente ciò che gli sarebbe potuto capitare se avessero infranto le leggi. Anche poeti e scrittori si ritrovarono ad assistere a questi macabri spettacoli: George Gordon Byron, in una lettera indirizzata al suo editore John Murray, scrisse:
“La cerimonia, compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo di sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte, è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop (si riferisce all’impiccagione) e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi.”
Anche Charles Dickens, nel suo libro “Pictures of Italy” (Lettere dall’Italia) diede la sua testimonianza:
“Un sabato mattina (l’otto marzo), qui un uomo venne decapitato. Nove o dieci mesi prima, aveva rapinato per strada una contessa bavarese diretta in pellegrinaggio a Roma, da sola e a piedi, ovviamente, mentre compiva quell’atto pietoso, si dice, per la quarta volta. La vide cambiare una moneta d’oro a Viterbo, dove egli veniva; la seguì; le offrì la propria compagnia lungo il viaggio per quaranta miglia o più, con l’infido pretesto di proteggerla; la assalì, portando a compimento il suo inesorabile piano nella campagna, a brevissima distanza da Roma, presso ciò che viene denominata (senza esserlo) la Tomba di Nerone; la derubò; e la percosse a morte con lo stesso suo bastone da pellegrino. Era sposata da poco, e regalò alcuni beni della vittima alla moglie, dicendole che li aveva comprati a una fiera. Ella, tuttavia, che aveva visto la contessa-pellegrina attraversare la loro città, riconobbe alcune chincaglierie che le appartenevano. Suo marito allora le raccontò ciò che aveva commesso. Ella, in confessione, lo riferì ad un sacerdote; e l’uomo fu catturato, entro quattro giorni dopo aver commesso il crimine… Dopo un breve lasso di tempo, alcuni monaci della detta chiesa furono visti avvicinarsi al patibolo; e sopra le loro teste, avanzando lentamente e tristemente, l’effige di Cristo in croce, bardato di nero. Questa fu trasportata attorno alla base del patibolo, fin sul davanti, e girata verso il criminale affinché potesse vederla fino all’ultimo. Era a malapena giunta a destinazione, quando costui apparve sulla sommità del patibolo, scalzo; le mani legate; e col collo della camicia tagliati fin quasi alle spalle. Un giovane uomo, circa ventisei anni, di robusta costituzione, è ben proporzionato. Pallido il viso; buffetti scuri e capelli bruni. Apparentemente, aveva rifiutato di confessarsi senza prima fargli incontrare la moglie; così era stata inviata una scorta a prenderla, ciò che aveva cagionato il ritardo. Si inginocchiò subito, sotto la lama. Il collo, posizionato in un foro, realizzato all’uopo in un ceppo orizzontale, fu serrato da un simile ceppo situato superiormente; proprio come in una gogna. Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all’istante. Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt’intorno al patibolo, mostrandola alla gente, prima ancora di potersi rendere conto che, con un secco rumore, la lama era pesantemente scesa. Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati del patibolo, fu fissata in cima a un palo sul davanti, una piccola chiazza bianca e nera, che la lunga via poteva scrutare, e su cui le mosche potevano posarsi. Gli occhi erano rivolti in alto, come se avesse distolto lo sguardo dalla borsa di cuoio, e avesse guardato verso il crocifisso. Ogni colore e sfumatura vitale l’aveva, in quel momento, abbandonato. Era grigia, fredda, livida, cerea. Così era anche il corpo… Il corpo fu trasportato via a tempo debito, fu ripulita la lama, smontato il patibolo, e smantellato l’intero odioso apparato. Il boia: un fuorilegge EX OFFICIO (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa traversare il Ponte S. Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso…”
Sempre Dickens disse:
“Settimana Santa del 1845 c’è stata una decapitazione di fronte a San Giovanni Decollato (ironicamente!), della quale quelli che mi ha colpito non è stato l’atto né la condotta del boia, ma il comportamento della gente che era accorsa a vederlo: non era turbata e neanche dispiaciuta. Lo vedeva come un atto normale della vita quotidiana.”
Anche Massimo D’azeglio, in alcune pagine de “I miei ricordi”, scrisse:
“In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle piogge di un celebre malandrino.”
Già, perché il boia, che certo non era particolarmente amato dai suoi concittadini, abitava sulla riva destra del Tevere, al numero 2 di vicolo del Campanile e, per prudenza, gli era stato vietato di recarsi in città, dall’altro lato del fiume ( di qui il proverbio romano “Boia nun passa ponte”, a significare “ciascuno se ne stia al proprio posto “). Ma, per poter ottemperare ai propri doveri, a Bugatti era consentito attraversare il ponte per recarsi a Piazza del Popolo, a Campo de’ Fiori, a piazza di Ponte o in via dei Cerchi: ciò diede origine ad un altro proverbio romano “Mastro Titta passa ponte”. Vederlo passare il ponte con il suo mantello rosso, significava che un’altra esecuzione capitale avrebbe avuto presto luogo. Prima di ogni adempimento, Bugatti era solito comunicarsi dopo essersi confessato scrupolosamente. All’occorrenza andava a svolgere la sua attività anche in altri territori dello Stato Pontificio.
Pare che il boia dicesse:
“Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo?”
Oggi il suo mantello scarlatto e il coltello a tortiglione con il manico di bronzo, sono in mostra al Museo Criminologico del Palazzo del Gonfalone.
Oggi si narra che il fantasma di Mastro Titta ami passeggiare nei pressi dei luoghi dove eseguiva le sentenze. A Roma quest’uomo divenne sinonimo di boia, tanto da ispirare perfino una filastrocca per bambini: “sega sega Mastro Titta, ‘na pagnotta e ‘na sarciccia, una a me, una a te, una a mammeta che ‘so tre!”
Il Vaticano ha applicato la pena di morte fino al XIX secolo, sotto il pontificato di Pio IX, ma dal 1929 non si è svolta alcuna esecuzione. La pena di morte, limitata alla forca, è stata abolita nel 1967 da Papa Paolo VI, ma si è mantenuta come pronostico legittimo nel testo del Catechismo della Chiesa Cattolica. Solo con Papa Giovanni Paolo II e la sua enciclica Evangelium Vitae del 1995 il Vaticano è diventato un deciso abolizionista, e con la revisione entrata in vigore il 22 febbraio 2001 ha abolito definitivamente la pena di morte dal testo della Legge Fondamentale (l’equivalente della Costituzione di qualsiasi Stato secolare), risalente al 1929, data di nascita dell’attuale Stato vaticano.
CURIOSITÀ
- Nel 1891 viene pubblicata “Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso”, una falsa autobiografia di Bugatti che prende spunto dal taccuino di appunti effettivamente tenuto dal boia.
- Ritroviamo la sua figura anche nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, nel Rugantino di Garinei e Giovannini, nella pellicola di Luigi Magni “Nell’anno del Signore ” e in tante leggende e tradizioni popolari romane.
Fabiana Manna