Nel 2013 J. Dicker pubblica “La verità sul caso Harry Quebert”, un giallo ben costruito: Harry Quebert è uno scrittore di successo, ormai avanti negli anni, che vive ad Aurora, in Illinois, in una spettacolare villa che si affaccia sull’oceano; insegna all’università, coltiva relazioni cordiali con gli abitanti della cittadina, per i quali è la celebrità locale, e svolge con grande orgoglio il ruolo di mentore di una giovane promessa della letteratura, Marcus Goldman.
La tranquilla ma soddisfacente vita dello scrittore è improvvisamente sconvolta dalla scoperta di un cadavere nel suo giardino: il corpo di Nola Kellergan, una quindicenne scomparsa molti anni prima, viene ritrovato insieme alla copia del manoscritto del libro che ha portato Quebert al successo, “Le origini del male”.
Insieme al corpo viene alla luce la storia dell’amore dell’allora giovane scrittore Harry con la ragazzina morta e da lì, con una serie di ben riusciti colpi di scena, si snoderà l’intera vicenda che lascerà il lettore pieno di adrenalina ma anche pago di sentimenti.
“La verità sul caso Harry Quebert” è un romanzo di ben settecentosettanta pagine che si leggono con piacere, anche se forse ne sarebbero bastate anche la metà per arrivare allo stesso risultato, ma si sa, gli scrittori americani sono Re Mida della letteratura e ciò che scrivono acquisisce pregevolezza e fama più di quanta ne avrebbe riscosso un romanzo simile scritto e ambientato in Italia.
Infatti dal 2013, anno di pubblicazione, ancora oggi l’opera di Dicker è fra i best seller e chiunque lo legga, per quanto lo possa passare ai raggi X, non riuscirà a relegarlo fra i titoli della letteratura commerciale.
Viene spontaneo chiedersi come possa mai accadere che questo romanzo, nonostante non sia un’opera d’arte, sia in grado di mantenere una vitalità così prolungata nel tempo.
Credo che dipenda dalla circostanza che non siamo dinnanzi a un semplice giallo, ma piuttosto un romanzo per così dire “integrato” fra letteratura e sentimenti.
Nonostante sembri verosimile, sin dall’inizio, che Quebert possa essere il colpevole non lo si riesce mai a biasimare e si resta fino alla fine con la speranza che non lo sia, pur non rappresentando esattamente un eroe positivo.
Perché Harry Quebert è innanzitutto uno scrittore, e di lui si coglie la capacità di arrivare alla pancia della gente, come del resto è in grado di fare l’autore del romanzo.
“E’ come nella boxe. Tu sei destro, e quando attacchi porti sempre avanti per primo il sinistro: con quello stordisci l’avversario, poi arriva la combinazione di destro con cui mandarlo al tappeto. E’ così che deve essere il tuo secondo capitolo: un diretto sulla mascella dei lettori”
Ed è un uomo innamorato, anche se di una ragazzina di quindici anni e ciò mette un certo disagio a chi legge. Eppure, grazie all’abilità della scrittura di Dicker, non si ha mai la sensazione di essere di fronte a un pedofilo, anche se possiamo decisamente affermare che questo sia il leit motiv dell’intero romanzo.
“Scrivere romanzi non è una cosa da niente: tutti sanno scrivere, ma non tutti sono scrittori.”
“E come si fa a sapere di essere uno scrittore, Harry?”
“ Nessuno sa di essere uno scrittore, Marcus. Glielo dicono gli altri.”
Ma la longevità di questo successo va anche ascritta ad un altro fattore: nel 2018 “La verità sul caso Harry Quebert” è oggetto di un adattamento televisivo, in dieci puntate, trasmesso anche in Italia nel 2019; la serie riscuote un notevole successo, probabilmente superiore al romanzo.
Ma quando accade ciò che vuol dire? Se un’opera svolge appieno la sua “missione” di parola scritta non è più naturale che rimanga fra le pagine che la compongono?
La rappresentazione reale definisce un ulteriore livello di qualità del romanzo o ne segnala la presenza di fragilità che rendono necessarie l’utilizzo della fisicizzazione delle immagini?
Bisogna riconoscere che le riduzioni cinematografiche e televisive dei romanzi piacciono moltissimo e sono seguite da un pubblico trasversale, che va dai giovani ai meno giovani, riuscendo addirittura nell’intento alquanto rocambolesco di riunire le famiglie dinnanzi allo schermo grande e piccolo.
Se ci guardiamo attorno vediamo che questa prassi è molto diffusa: Ferrante, Camilleri, De Giovanni, autori ormai quasi più noti per le fiction tratte dai loro romanzi che per i romanzi stessi. Per non parlare poi di opere del passato, come “Le stelle stanno a guardare” di Cronin, o “Nel nome della rosa” di Umbero Eco, che hanno vissuto già diversi anni fa la trasformazione in sceneggiati.
A mio avviso ciò accade evidentemente perchè il messaggio scritto presuppone un decodificatore più astuto, in grado di possedere di un numero spesso elevato di conoscenze pregresse. Se, per esempio, un romanzo narra delle doti tecniche di una ballerina, bisognerà necessariamente richiamare alla memoria le nozioni eventualmente introitate sulla danza, per poter andare avanti nella lettura.
Inoltre la fruizione di un filmato (un film, una serie TV, uno sceneggiato) è soggetta a tempi e ritmi imposti, differentemente dalla lettura di un libro, attività modulabile liberamente, secondo pause e percorsi autonomi: ciò significa che la prima visione di un filmato impone vincoli interpretativi quasi immediati, a differenza della seconda.
Se confrontiamo un romanzo con una rappresentazione filmata, è inevitabile dunque affermare che la seconda sia più “alla mano” del primo, in quanto più magnanima verso le difficoltà del fruitore: ovviamente non si tratta di un giudizio, volto a stigmatizzare il filmato rispetto alla letteratura, ma soltanto di una possibile interpretazione del perché “La verità sul caso Harry Quebert”, insieme a tantissimi altri romanzi, abbia riscosso un successo straordinario come serie TV, pur essendo tratto da un’opera decisamente non da Premio Pulitzer.
Il volto di Patrick Dampsy, già noto per essere stato per anni il personaggio cult della serie Grey’s Anatomy, è entrato con grande intensità nelle case delle persone a portare la storia di ambiguità e di dolore del prof. Harry Quebert; i boschi e le spiagge dell’oceano dell’Illinois sono diventati scenari allo stesso tempo spettacolari e temuti dagli spettatori; famiglie borghesi, interpretate da uomini e donne dal volto così comune da sembrare quelli che incontriamo ogni giorno, hanno rappresentato in carne ed ossa, nei dieci episodi della serie, i drammi e le scelleratezze che possono celarsi dietro ogni persona che si incrocia sulla propria strada.
Va anche detto che la rappresentazione di tipo visivo è in grado di stimolare un’intelligenza “simultanea”, combinando in contemporanea aspetti differenti (suono, immagini, concetti), mentre il testo scritto si caratterizza per la sequenzialità, intrinseca nel meccanismo di lettura. Da questo punto di vista, dunque, i testi visivi sono capaci di arrivare al destinatario con maggiore energia, raggiungendo con più efficacia l’obiettivo finale della comunicazione del messaggio intrinseco.
E infatti il personaggio Mark Goldman, interpretato dal giovane e brillante attore Ben Schnetzer, che ha dato una voce e un’identità fisica all’eroe positivo della serie TV “La verità sul caso Harry Quebert”, riesce a costruire con gli spettatori una relazione molto più intensa del giovane scrittore in erba narrato con le parole, rispondendo in modo evidente all’imperativo della nostra civiltà che attribuisce all’immagine, in ogni sua espressione, un potere assoluto e ne sancisce la supremazia su ogni altra forma di comunicazione.